Il 5 ottobre 1969 una bomba distrusse la statua della polizia in Heymarket Square, a Chicago. Ricordava una manifestazione repressa nel sangue 83 anni prima, il primo maggio 1886. Rappresentava un poliziotto dell’epoca, e sul piedistallo era inciso: «Nel nome del popolo dell’Illinois vi ordino di disperdevi». La statua fu ricostruita pochi mesi dopo, e abbattuta di nuovo, esattamente un anno dopo la prima esplosione. Quel botto fu la prima azione pubblica degli Weather Underground. Con quindici anni tondi di ritardo rispetto all’uscita negli States torna in Italia, grazie alla mai abbastanza elogiata DeriveApprodi, Fugitive Days (pp. 334, euro 22.00, traduzione di Vincenzo Binetti e Andrea Terradura), il libro di «memorie degli Weather Underground» scritto da Bill Ayers, uno dei principali leader dell’organizzazione che mise a segno nei ’70 una serie di attentati tanto fragorosi, anche mediaticamente, quanto poco sanguinari. Nelle loro azioni non si contano vittime: colpivano cose, non persone. A registrare tre morti, per l’esplosione accidentale di un ordigno che stavano preparando, furono invece loro, a New York, nel marzo ’70. Tra le vittime c’era anche Diane Oughton, allora compagna di Ayers. Il libro era in realtà già stato pubblicato in Italia da Cox 18, nel 2006, ma con una circolazione giocoforza limitata alle reti di movimento.

Bizzarre torsioni

Per chi guarda la storia con l’occhio del magistrato inquirente, alla ricerca di date precise e nomi a cui accostare una responsabilità penale, il libro di Bill Ayers è di scarsa utilità. Lui stesso lo introduce segnalando che la sua è «solo una versione dei fatti». Spiega infatti che «la maggior parte dei nomi e dei luoghi sono stati cambiati, molte identità alterate, e le impronte cancellate». Ogni capitolo, inoltre, è introdotto da una breve riflessione sulla memoria, sui suoi inganni, sulla sua fallacia, sulle sue bizzarre torsioni. Ma per chi a un libro di questo genere chiede invece di restituire il senso, le emozioni e quasi le sensazioni fisiche di un’epoca, Fugitive Days è impareggiabile.

A differenza della stragrande maggioranza dei titoli che compongono la fluviale memorialistica internazionale sugli anni della Rivolta e che, salvo rarissime eccezioni (in Italia Armi e Bagagli di Enrico Fenzi), non scintillano per qualità letteraria, Fugitive Days è anche scritto benissimo, tanto da poterlo leggere come un romanzo avvincente. La fase clandestina degli Weather, in realtà, occupa solo l’ultima parte del volume. L’autobiografia di Ayers che parte dall’infanzia dorata di un ragazzo nato nella upper class, come molti dirigenti degli Weather, e cresciuto nell’età dell’oro del grande ottimismo, quando tutto sembrava poter andare solo bene o meglio, prosegue soffermandosi sulla fase montante della protesta, prima per i diritti civili dei neri, poi contro la guerra in Vietnam, nella seconda metà degli anni ’60. É difficile rintracciare un’istantanea altrettanto nitida della tonalità emotiva che ha permeato la generazione dei baby boomers a cavallo tra i ’50 e i ’60 e nella quale affondano le radici della successiva rivolta.

Rivolte dorate

«Andrà tutto bene», ripete e sbandiera come atto di fede la madre del futuro bombarolo in ogni occasione. Con tutta la paura della distruzione, le esercitazioni antiatomiche, la paranoia dei rossi alle porte era quello il sentimento dominante nei decenni della golden age. Per la generazione cresciuta in quell’atmosfera, era normale reclamare la felicità come un diritto, volerla subito e per tutti, non solo per se stessi e per gli altri privilegiati, considerare nemici che si sarebbero potuti facilmente abbattere i poteri che lo impedivano. Quella americana è stata una ribellione insieme generazionale e politica che, per dimensioni e durata, può essere paragonata solo al caso italiano. Non era la prima, non sarà l’ultima. La differenza sta nel fatto che quella rivolta, ovunque ma in America più che altrove e persino più che in Italia, tentò di praticare subito l’obiettivo, dandosi da fare per cambiare subito il proprio modo di vivere e di essere.

Onde repressive

Prima di mettere bombe in giro per l’America, Ayers imparò a insegnare in modo alternativo nei ghetti e nei quartieri poveri. Scrivendo di quel tempo, riesce a comunicare perfettamente la sensazione di vivere già in una dimensione «liberata», nella quale il rovesciamento dei valori e delle pratiche funzionali all’esercizio e alla riproduzione del dominio era all’ordine del giorno. Alcuni dei temi che da noi diventeranno merce comune solo nella seconda metà dei ’70, come la congiunzione tra dimensione personale e dimensione politica e soprattutto l’ondata femminista, s’impongono in America già a partire dal 1967. Incidono a fondo sulla vita di Ayers e del suo gruppo, già impegnato 24 ore su 24 in ogni tipo di mobilitazione: contro la guerra, a fianco dei neri e in particolare delle Panthers, nei quartieri popolari per l’estensione del welfare.

Gli Weather Underground, nome suggerito da un testo di Dylan, «You Don’t Need a Weatherman to Know Which Way the Wind Blows», nascono nel ’69, sull’onda della durissima repressione delle manifestazioni organizzate a Chicago in agosto, in contemporanea con la convention democratica. Una parte dell’SDS, l’organizzazione studentesca che aveva guidato le lotte nei campus, decide di «portare la guerra in casa», offrendo una sponda armata all’interno dell’America ai movimenti anti-imperialisti sparsi per il mondo e alla «colonia interna» rappresentata dalla popolazione nera.
Non erano quella banda di pazzi isolati che è stata poi dipinta, a partire da J. Edgar Hoover che definì Bernardine Dohrn, la più celebre tra gli Weather e da decenni moglie di Ayers, «la Pasionaria della sinistra fuori di testa». Di attentati contro obiettivi legati al governo o alla grande impresa ce ne furono in pochi anni cinquemila. Di questi solo sei, sia pure i più clamorosi, furono rivendicati dal principale gruppo armato.

Memorialistica torrentizia

Ayers non ha fatto un solo giorno di galera. Tutte le accuse nei suoi confronti sono cadute per i metodi illegali adoperati dall’Fbi nella raccolta delle prove. E’ rimasto ugualmente in clandestinità fino al 1980, perché la Dohrn era invece ancora ricercata. In seguito ha insegnato all’università, ha recuperato e messo a frutto l’esperienza fatta nelle scuole alternative di movimento con numerose pubblicazioni sull’insegnamento nei quartieri poveri e disastrati. Nei confronti del passato mantiene un atteggiamento equilibrato. Non rivendica tutto. É consapevole dell’arroganza e della presunzione estreme della generazione che aveva tra i propri slogan «non fidatevi di nessuno sopra i 30» e un po’ ci credeva davvero. Ma non rinnega la militanza, l’impegno contro la guerra, il bisogno di azione che spingeva lui e buona parte di quella generazione.
Sarebbe ora di riconoscere che la torrentizia memorialistica sfornata dalla generazione ex ribelle ha fatto anche danni, e spesso ha falsato più che chiarito. Il libro di Ayers è una boccata d’ossigeno. É impossibile leggerlo senza intuire che il compito dei Movimenti, quando sono reali, non è liberare il futuro in nome di un altro mondo possibile, ma liberare il presente, nel mondo reale