Gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore, scriveva Flaiano. Si fa avanti, a mio parere, il rischio di una lettura sbagliata della fase e del Movimento Cinque stelle, inebriati come siamo dall’odore del nuovo.

Rischiamo la sindrome Bombacci (comunista poi convinto repubblichino) della sinistra stretta tra San Sepolcro e le compatibilità giolittiane. E non sto usando la categoria storica del fascismo delle origini come spauracchio, anzi, per dirla con De Felice, cito il San sepolcrismo, né di destra né di sinistra, come proposta politica capace di parlare ai ceti medi frantumati dalla crisi. Certo il commercio equo, gli orti urbani, perfino un po’ di trivelle. Così come dovettero ricorrere alla collaborazione del socialista Beneduce per la realizzazione del’Iri nella prima parte del ventennio. Il tema non sono mai i programmi, i singoli aspetti, le nicchie a cui aggrapparsi, quelle non mancano mai. Il tema è il senso generale di una proposta politica, le sue pratiche, i valori e i blocchi sociali di riferimento in un momento di sommovimenti globali regressivi senza precedenti.

M5S ha tratti che vanno contrastati senza indugi. Una certa idea del mondo, compresa l’Europa e i flussi migratori, ma ancor di più un approccio alla legalità che non contempla la giustizia sociale e soprattutto il sequestro, la privatizzazione della decisione di ultima istanza che, come è noto, non risiede nel deputato o nel sindaco scelto dal popolo ma nel famigerato Staff, la Casaleggio e associati. Una parte della sinistra brinda alla sconfitta del Pd, felice nel vedere non la propria squadra del cuore, ma un’altra squadra, battere la squadra più odiata. Un atteggiamento che sa di irrilevanza.

Dovremmo concentrarci sull’essenziale che l’esito elettorale ci consegna, una rabbiosa rivolta contro la disuguaglianza sociale, le nuove povertà, il ceto medio disintegrato, il welfare mutilato, la fatica degli anziani, l’ascensore sociale fermo al piano terra e la cancellazione dal vocabolario delle nuove generazioni della parola futuro.

C’è un modo elitario di intendere il partito della nazione, fondato sulle compatibilità neoliberiste e sul dominio della tecnica economica che sta portando al disastro l’Europa, soprattutto ora dopo la Brexit. Un governo della crisi dall’alto, in collaborazione con i poteri che contano, stringendo gli spazi democratici. Su questo lavora Renzi.

Ci può essere una versione plebea del medesimo partito, basato sull’urlo anti casta, il nazionalismo, il giustizialismo e la costruzione costante del capro espiatorio. Entrambi i partiti della nazione fanno uso massiccio di dosi di propaganda, di trasversalismo, investono sulla rottamazione, cavalcano le pulsioni populiste, puntano alla stretta decisionale e affascinano in egual misura le élite sempre pronte ad abbracciare il nuovo, dopo ovviamente aver fiancheggiato il vecchio.

Nessuno dei due partiti si misura con i nodi strutturali che determinano il malessere di massa, la gigantesca disuguaglianza che attraversa le vite delle classi subalterne. Nei due storytelling, quello da telefoni bianchi e quello splatter, non c’è traccia della nuda vita, della fatica di vivere oggi in Italia. Si dividono in due generi letterari, il romanzo rosa e il noir. Spesso concordano sul colpevole, quasi sempre un usciere sindacalizzato di qualche ministero in cui si spreca tantissimo concedendo straordinari al medesimo.

Il populismo si combatte con il popolo, non con la rincorsa forsennata alla pancia inferocita di chi sta peggio. La politica dovrebbe investire in processi auto educanti, nella capacità di leggere i cambiamenti in corso che aumentano le disuguaglianze; leggerli non con le lenti del determinismo economicista ma con la potenza dei movimenti reali. Il populismo si fa bastare capri espiatori facili, spesso i più fragili, come i migranti. Dalle amministrative arrivano alcune buone notizie, dalla bella eccezione di Sesto, alle esperienze di centro sinistra che vincono e rilanciano, da Cagliari e dalla Sardegna, fino alle tante realtà municipali medio piccole, fino a Milano. Fino all’onda anomala napoletana. Storie diverse, dove però vince la vita.

Il tonfo lo abbiamo fatto a Roma, dove gli elettori ci hanno puniti, pochi voti per fare l’opposizione alla Raggi. Valuteremo caso per caso, come sempre si fa, ogni singolo atto, ma dalla opposizione netta e senza sconti.

Nessun mascheramento, nessun strabismo, nessun ambiguità. Hanno vinto loro, spetta a loro il governo della città. Alle tentazioni trasformiste che qua e la affiorano tra la sinistra, vorrei dire una cosa brutale: non vi vogliono, non ci sperate, le nostre biografie sono incompatibili con l’antropologia grillina. Chi ha fatto la gavetta, chi ha svolto ruoli nel sindacato, chi nei partiti, chi ha ricoperto incarichi istituzionali, chi ha occupato una casa, un centro sociale, una scuola, chi è funzionario di partito dall’età di venti anni non è compatibile con quel mondo. Potrà esserci qualche cooptazione individuale, con cenere in capo e bianchetto sul curriculum, ma la sostanza non cambia.

Quando parlano di cittadini non parlano di tutti, parlano dei loro cittadini. Sono riusciti a trasformare un concetto potente fondato sull’inclusione in un meccanismo che esclude, quasi un processo castale con al centro i cittadini stellati, quelli che possono accedere a luoghi decisionali chiusi che sovraintendono alle politiche pubbliche, in barba all’autonomia del sindaco di turno.

Piuttosto che inseguire la scia pentastellata, rischiando di trasformarci in un aggregato subalterno, peraltro neanche gradito, sarebbe utile concentrarci su come moltiplicare gli sforzi in previsione del referendum, lì potremmo battere sul campo Renzi e per questa via contribuire, con un profilo politico autonomo, alla nascita di un polo progressista che metta al centro della sua azione welfare, redistribuzione, uguaglianza, rifondazione dell’Europa dei popoli.

La sfida della sinistra non minoritaria continua ad essere tutta qui, mandare a casa Renzi e riaprire la partita dell’alternativa di società e di governo nelle città e nel Paese.