Autunnalità, brividoso, scatenatezza, penombrato: parole inquiete e incantatrici nella loro strana suggestione, inventate (da un grande scrittore) mettendo a frutto un meccanismo tra i più comuni della lingua: la possibilità di arricchire il vocabolario grazie a processi di derivazione, che accostano un suffisso, o un prefisso, a una base già esistente. Inventare le parole è un’avventura disponibile per tutti. Lo fanno, senza rendersene conto, i bambini; e gli adulti quando imparano una lingua nuova. Lo fanno, consapevolmente, quelli che sanno sfruttare «il senso del nonsenso» (così lo chiamava Alfonso Gatto).

ianni Rodari, per esempio che, creando lo scannone per disfare la guerra, volava dal prefisso all’utopia. Lo faceva, come nessun altro, Beppe Fenoglio: le pagine del suo romanzo incompiuto, Il partigiano Johnny, brillano di parole formate, o deformate, grazie a un uso nuovissimo dei suffissi, che accendono la pagina di strani bagliori: «Dovette proteggersi gli occhi contro la formidabilità del riverbero, che poneva azzurre fiamme ai contorni delle colline». I neologismi – anche quelli di Fenoglio – possono colmare un vuoto (sepolcralità, sinistrità non hanno sinonimi), o rimpiazzare, con una impennata di energia, un termine già disponibile (la nerezza, nel Partigiano Johnny, è più nera del nero).

ell’uno e nell’altro caso, lo scrittore valorizza una risorsa presente nella lingua, la capacità delle parole di rinnovarsi attraverso la suffissazione: attinge a un patrimonio virtuale, e lo mette in moto. Spesso, i neologismi del Partigiano Johnny sono termini astratti. Così incisivi da modificare l’immagine del mondo restituita a chi legge. Per forza di astrazione, Fenoglio sfida l’inerzia percettiva di cui tutti soffriamo. I rapporti acquistano nuova, obliqua chiarezza: l’eternità arcana della natura e l’esperienza bruciante della guerra si incontrano e fanno scintille. Fanno quella lingua, solenne e nuova, che Luigi Meneghello, ha chiamato un «ispirato diversiloquio».