Si racconta che prima di diventare famosa Oprah Winfrey avesse una citazione attaccata allo specchio, una frase da lei attribuita a Jesse Jackson: «Se posso pensarlo, e se il mio cuore ci crede, significa che posso farlo». A cosa pensasse il reverendo Jackson è storia nota. Pensava di correre per la Casa Bianca e dovette crederci con tutto il cuore, ma non riuscì mai nell’intento malgrado abbia partecipato per ben due volte alle primarie del partito democratico. Il suo fallimento è stato però compensato dal successo della conduttrice televisiva. Il jet privato di Oprah, il suo patrimonio miliardario, l’impero d’immagine che questa donna del Mississippi ha costruito con la sola forza della personalità, dimostrano che il principio di concepire un obiettivo e crederci fino in fondo è valido. Valido nella misura in cui può essere valido per un americano, ovvio. Il che è come dire: valido come può esserlo un sogno o una bella favola. In effetti, è anche qualcosa di più.

Nella versione ovviamente agiografica e poco attendibile che Oprah dà della sua infanzia, in principio c’era una bambina dalla pelle nerissima e così povera che nessuno dei suoi vestiti era comprato in un negozio. Per animali domestici aveva un paio di scarafaggi alloggiati in un barattolo. Illuminata dalla lugubre luce di inizi tanto infelici e scoraggianti, la storia di Oprah non è più soltanto la bella favola. Mattatrice indiscussa della televisione. Ambasciatrice della lettura presso il grande pubblico. La donna che dà del tu a chiunque, Presidente incluso, è la dimostrazione che ascendere dalla stalle alle stelle è ancora possibile.
La parabola straordinaria di Oprah è inoltre un dito puntato contro le persone che usano i prodotti scadenti che lei reclamizza ma che mai si sognerebbe di acquistare. Fa sentire in colpa le persone che non possono chiamare «amico» John Travolta. Quale opinione potrà mai avere di sé la persona che non possiede nemmeno una casa, quando Oprah, la bambina che giocava con gli scarafaggi, ne ha addirittura nove? Insomma, l’esistenza di Oprah non soltanto dimostra che il sogno americano esiste; priva di ogni scusante coloro che non ci hanno creduto, che non ce l’hanno fatta. L’assunto che restare un perdente è dovuto soprattutto a una mancanza di fiducia in sé stessi, a una scarsa determinazione nel conquista della propria felicità, è da sempre un tratto distintivo del pensiero americano, se non il tratto per eccellenza, quello dal quale tutti gli altri discendono.

Per quanto possa apparire falsa o retorica agli occhi di noi europei, questa convinzione ha costituito il punto di forza della nazione, una risorsa morale cui attingere nei momenti decisivi. Non per nulla l’espressione «Sogno Americano» divenne popolare durante la Grande Depressione, a partire dal 1931, grazie allo storico James Truslow Adams che la usò non lesinando sull’enfasi, in un libro dal titolo che era tutto un programma, Epic of America. Peccato però che da qualche decennio a questa parte il mito evidenzi crepe importanti. I Frantumi dell’America, vincitore del National Book Award per la saggistica (Mondadori, traduzione di Silvia Rota Sperti, pp. 489, euro 25,00), racconta questo declino ormai trentennale intrecciando i percorsi di varie persone.

Alcune di esse non sono che brevi ritratti, medaglioni di celebrità, quali appunto Oprah Winfrey, stelle che fanno da fondale a cinque storie più oscure o perlomeno non illuminate dai riflettori. Il figlio imprenditore di un coltivatore di tabacco caduto in disgrazia. La figlia di un eroinomane afroamericano cresciuta nella desolazione della Rust Belt deindustrializzata. Un collaboratore di John Biden che smarrisce presto i suoi begli ideali. Il ricco fondatore di PayPal. Per finire, non una persona ma un luogo della Florida: Tampa, centro nodale di una furiosa speculazione immobiliare e di quanto scaturì dal quel furore ovvero il fenomeno del Tea Party.

È un arazzo del disfacimento quello ordito da George Packer, firma di punta del «New Yorker» che nel 2005 aveva dato alle stampe The Assassins’ Gate, inchiesta ad ampio spettro sulla disastrosa occupazione dell’Iraq da parte dall’amministrazione Bush. Per certi versi questo nuovo libro può definirsi un prequel, una risalita alle origini del declino. Packar premette che nessuno può individuare con certezza il momento iniziale, perché «come ogni grande cambiamento, anche questo iniziò innumerevoli volte, in innumerevoli modi, finché a un certo punto il paese – sempre lo stesso paese – varcò una determinata soglia storica e diventò irrimediabilmente diverso». A questa considerazione dell’autore va aggiunto che l’eventualità di una grave crisi, di una minaccia catastrofica se non apocalittica è sempre stata parte integrante del racconto nazionale. La potremmo definire la forza oscura di cui il paese ha bisogno per dimostrare a se stesso di cosa è capace, quale avversità è pronto ad affrontare per la realizzazione e la difesa del suo Sogno. Del resto, non fosse per l’abisso delle stalle, che senso avrebbe la scalata alle stelle?

Molte di queste minacce sono state soprattutto immaginarie, spettri da sbandierare in nome dell’unità nazionale, ma non sono mancati i momenti di autentica drammaticità. Tra questi il più funesto del Novecento è stato certamente la Grande Depressione ed è proprio un testo fondamentale di quell’epoca che Packer ha scelto quale modello narrativo per il suo racconto: U.S.A. di John Dos Passos. Da quella trilogia scritta nei difficili ’30 I frantumi dell’America mutuano il continuo alternare di campi lunghi e sguardi ravvicinati, l’incessante sovrapposizione di piani e tempi diversi, il frenetico e apparentemente scoordinato susseguirsi di frammenti di storie, frammenti che a tratti diventano semplici semplici frasi, immagini icastiche nelle quali si intravede un ordito di qualche tipo, un livello sotterraneo dal quale è possibile estrarre un filo rosso.

Nel mezzo del suo viaggio, Packer mostra in termini inequivocabili che all’origine del dissesto americano ci sono i soldi facili e la conseguente e vorticosa sparizione di ogni idealismo politico. Lo fa attraverso le parole di Jeff Connaughton, consigliere dell’amministrazione Clinton vendutosi alle ragioni del lobbismo. E non senza profitto: «Quando piovvero vantaggi su Wall Street così come su Washington, quando diventò possibile fare milioni di dollari sul bottino aziendale – io ne ne sono un esempio vivente, nessuno ha mai sentito parlare di me eppure sono uscito da Washington con milioni di dollari in tasca -, quando il prezzo di certi comportamenti diminuì, quando cominciarono a erodersi e a scomparire le norme che se non altro frenavano le persone dall’essere sfrontate nel loro modo di guadagnare, la cultura cambiò».

È quella che Connaughton chiama la «teoria universale», teoria che dovrebbe spiegare cosa è diventato il denaro nella vita americana a partire dagli anni ’80: il segno di un’intera epoca, di un declino. Allo sgretolarsi delle regole che facevano funzionare le vecchie istituzioni, la nazione di un tempo è andata in frantumi, lasciando un vuoto riempito dal capitale organizzato, «la forza di default della vita americana». Il mito vuole che crolli di tale specie non portino soltanto disastri. I disastri rinnovano. Non si dice forse che bisogna vivere i momenti di crisi come occasioni da cogliere al volo?

L’America è il paese della libertà e pertanto Packer non manca di osservare che l’occasione offerta dal crollo è stata per l’appunto «una libertà che non si era mai vista prima»; ma in un mondo troppo libero, nel gioco tipicamente americano del vincere o perdere, «i vincitori vincono come non mai, levandosi in alto come enormi dirigibili, mentre i perdenti precipitano a lungo prima di toccare terra, e a volte non la toccano mai». Il vero prezzo da pagare non è tuttavia il fallimento in sé bensì la solitudine nella quale ognuno gioca le proprie carte. E poco importa allora che la partenza sia uno scalino di privilegio o uno scarafaggio chiuso in un barattolo. Nell’era della libertà sfrenata soprattutto una cosa va tenuta a mente: che nessuno si preoccuperà mai di te all’infuori di te.