Una strada sterrata in discesa con un lungo muro di mattoni in terracotta da una parte e officine meccaniche dall’altra, a mano a mano che ci si addentra l’odore acre e pungente della spazzatura mischiato al tanfo degli scoli di fognatura afferra le narici. Le strade sono piene di bottiglie di plastica, di rifiuti organici, di metallo, di vetro, di sacchi di spazzatura accatastati sui tetti dei palazzi, la gente che cammina sui bordi delle vie non si preoccupa di fare lo slalom tra l’immondizia, in giro si vedono, macchine e camion che alzano polvere in continuazione in un via vai che non sembra avere mai fine.

È l’Egitto, Il Cairo, precisamente Mancheyya Masr, il quartiere degli zibbelin (spazzini), un agglomerato di circa 4 milioni di abitanti che si dedica per la maggior parte alla raccolta della spazzatura, incastrato tra l’antica Cittadella, il quartiere residenziale del Muqattam e la Città dei Morti.

Mancheyya Masr è una città dentro la città, dove la vita quotidiana scorre come nel resto de Il Cairo tra meccanici di strada, fornai, alimentari, saldatori, portatori di pane in bicicletta, donne con i propri figli che passeggiano … l’unica differenza sono i sacchi di spazzatura ai bordi delle strade, sui tetti e dentro i garage al piano terra dei palazzi dove si procede allo smistamento.

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In mezzo a tutto questo caos, agli edifici di mattoni dalle facciate non rifinite e ad una quantità infinita di spazzatura si vedono lavorare anche i bambini. I piccoli zibbelin, come gli adulti di Mancheyya Masr, arrivano dal proprio giro nella vasta città de Il Cairo (18 mln di abitanti), con carretti trainati da asini riempiono giganteschi sacchi di yuta con diversi materiali a seconda di quello che la propria famiglia ricicla: il ferro, il vetro, la plastica o la carta. La storia degli zibbelin risale agli anni ’40. Il nonno di Ezzat Naim Guindy, presidente del Sindacato degli zibbelin, fu il primo, proveniva dal sud ed era andato a Il Cairo in cerca di fortuna ma come contadino aveva scarse possibilità di affermarsi.

Come racconta Guindy, dagli anni ‘20 le genti delle oasi, i wahayya, gestivano la spazzatura, la prendevano direttamente dalle case e dai negozi dietro compenso e la portavano nel deserto ad essiccare per 15-20 giorni per poi riportarla in città e rivenderla come combustibile domestico per i forni. I wahayya non avevano un contratto e lavoravano informalmente. Il nonno di Guindy colse l’opportunità al volo quando sentì parlare in un coffeshop alcuni wahayya della mancanza di manodopera per la raccolta dei rifiuti e si offrì di aiutarli facendo arrivare i propri parenti dal sud. Gli zibbelin risolsero anche il problema dei rifiuti organici che il vento dal deserto riportava in città utilizzandoli come cibo per i maiali perché l’80% è cristiano-copto, allevare maiali non è proibito come per i musulmani e diventa un modo per sbarcare il lunario risparmiando sul cibo.

Fu così che nacque il primo insediamento a Mancheyya Masr, fatto di tende e di baracche, solo sul finire degli anni settanta furono costruiti interi palazzi con acqua, luce e fognature. Oggi nei piani alti degli edifici vengono ammassate tonnellate di rifiuti già riciclati da vendere alle fabbriche esterne al quartiere, invece al piano terra dei palazzi viene portata la spazzatura raccolta in città, qui le donne e le bambine separano manualmente i rifiuti organici da quelli indifferenziati. Guindy spiega l’importanza che ricopre il sindacato degli zibbelin nel cercare di far valere i diritti dei lavoratori che per la maggior parte lavora in nero, per ottenere una pensione e soprattutto una protezione sanitaria. «Il problema fondamentale per la separazione dei rifiuti organici sono le malattie. L’epatite B e C sono le più diffuse, ma anche altre malattie infettive della pelle sono molto comuni. Il contagio avviene sia durante la raccolta che durante la differenziazione, proprio perché il cittadino non è educato a separare l’organico dagli altri materiali”. Chi ne fa le spese sono le donne del quartiere, perché loro hanno il triste onere di separare la spazzatura, infilano letteralmente le mani nei sacchi, sono le prime a prendere malattie, e conseguentemente a trasmetterle ai propri figli. C’è solo l’ospedale della chiesa copta nel quartiere e la clinica delle suore, entrambi non riescono a fronteggiare il numero di contagiati».

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Gli zibbelin di Mancheyya coprono nove municipalità de Il Cairo (West el Balad, Medinat Nasr, Al Muqattam, Al Khalifa, Sayda Zenab e Aisha, Abdin, Shubra), da Mancheyya Masr scendono in città circa 65000 spazzini e raccolgono la stratosferica cifra di 9500 tonnellate al giorno su circa 14000 dell’intera metropoli. Guindy precisa: «Se tutta questa mole di spazzatura fosse amministrata solo dall’italiana AMA e dalla spagnola FCC (che attualmente gestiscono per lo Stato egiziano parte della raccolta), si riciclerebbe solo il 20%, mentre noi, senza un contratto, ricicliamo quasi l’85% calcolando l’organico che diamo ai maiali». Gli zibbelin da sempre fanno un servizio di porta a porta, arrivando agli ultimi piani dei palazzi più alti, prendono in nero mensilmente 10 LE ad appartamento, perché formalmente per lo Stato egiziano non esistono. L’Associazione Spirito dei Giovani per i servizi dell’Ambiente di Guindy ha spinto gli spazzini a creare delle imprese per ottenere la licenza dallo stato e giustificare così la creazione del sindacato. Continua Guindy: «Sono 60 aziende con 1380 dipendenti, nel futuro aumenteranno e quando nel 2017 scadrà il contratto di AMA e di FCC allora saremo pronti a subentrare alle ditte straniere. Abbiamo iniziato un progetto pilota nei quartieri di Dokki e dell’Aguza perché si educhino i cittadini a fare la differenziata direttamente in casa, separando l’organico dall’indifferenziato. Il Ministero dell’Ambiente è sovvenzionato dalla società tedesca per gli investimenti GIZ e dagli Emirati Arabi Uniti, attraverso queste sovvenzioni è il comune de Il Cairo che paga gli spazzini. Nel 2017 saranno gli stessi residenti che pagheranno la municipalità per impiegare piccole aziende per la rimozione e il riciclaggio dell’immondizia. Se il progetto avrà successo, verrà esteso ad altri quartieri».

Non tutti gli zibbelin vedono di buon occhio il programma pilota, hanno paura di abbandonare modalità di lavoro consolitate, seppur ingiuste e pericolose, però Guindy è convinto che se le otto ditte appaltatrici avranno un discreto guadagno allora tutte le reticenze scompariranno. Guindy ha timore che possano esserci degli agitatori nei due quartieri scelti come punto di partenza con l’intento di sabotare l’intero progetto, non lo dice apertamente, ma punta il dito contro le compagnie straniere e il Sindacato ufficiale della Nettezza Urbana de Il Cairo CCBA (Cairo for Cleanse at Beautification Authority – www.ccba.gov.eg) che hanno paura di perdere gli appalti. Guindy spiega meglio: «Siamo coscienti delle possibili provocazioni, per questo abbiamo creato un forum legale che attraverso il sindacato difende gli spazzini, qualora sussistano problemi con la polizia il lavoratore ha una completa protezione legale da parte di un nostro avvocato». Però ci sono molti imprenditori che hanno sposato a pieno titolo la cause di Guindy e l’azione politica che sta portando avanti il sindacato.

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Abu Dahul, è il proprietario di un’azienda di riciclaggio di materiali tessili, ha 65 anni e da 50 vive a Mancheyya, Michael Manduah, 26 anni, padrone di un’impresa di riciclaggio della plastica, da 15 anni lavora con il padre da cui ha ereditato il posto, rivende tonnellate di plastica alle imprese nazionali. Entrambi sono coscienti delle enormi possibilità che ci sarebbero riuscendo a contrattare direttamente con il governo centrale. Guindy illustra le condizioni che hanno portato alla nascita del sindacato: «La necessità di creare un sindacato degli zibbelin a Il Cairo è venuta dopo la rivoluzione del 2011. Gli zibbelin hanno lavorato come spazzini in nero fin dal 1944, oggi sono gli appaltatori stranieri, AMA e FCC, insieme ai Wahiyyin che controllano gli zibbelin senza dare loro nessuno share. Questo sistema ingiusto è durato così a lungo perché gli zibbelin sono riusciti a ricavare sempre qualcosa dall’immondizia».

Guindy è stizzito con le aziende straniere, elargisce sorrisi tesi perché è cosciente che ci sono milioni in ballo per gli appalti e il suo sindacato vuole avere la sua parte. Poi spiega meglio le dinamiche che hanno permesso agli zibbelin di sopportare per decenni condizioni ingiuste: «All’inizio con i resti organici si allevavano animali domestici utili al sostentamento familiare e si guadagnava con le mance della raccolta. Successivamente, dagli anni sessanta, arrivarono a Mancheyya Masr aziende da Matareyya, da Bassus e da Bahtim per comprare materiali di scarto: carta, plastica, rame, ferro, alluminio, vetro. Gli zibbelin hanno iniziato così a vendere e a trarre un guadagno che ha permesso loro di vivere decentemente. All’inizio del 1980 la Cassa di Sviluppo Nazionale, insieme a finanziatori stranieri del calibro della Fondazione Ford, hanno dato crediti convenienti ai singoli zibbelin per implementare un ciclo di riciclaggio moderno, permettendo di comprare l’attrezzatura necessaria come i trituratori di plastica, i plastic granulator, i compattatori di carta e metallo, i separatori di cotone e di vetro. Gli zibbelin raccolgono il vetro e la plastica e li lavorano per riciclarli e rivenderli alle grandi industrie, inoltre riciclano i tessuti separandoli per colori e ricavandone cotone quasi grezzo per fare tappeti, materassi, borse e vestiti presso la scuola delle ragazze Madrasat Al Benet». Purtroppo non esiste una macchina che separi l’organico dall’indifferenziato che eviterebbe il diffondersi delle malattie infettive, per questo il progetto pilota nei rioni di Dokky e dell’Aguza assume un’importanza rilevante per migliorare la vita delle donne di Mancheyya.

Secondo quanto afferma Guindy, la situazione degli spazzini non sembrerebbe così male, molti cairoti insinuano che la maggior parte degli zibbelin sia molto ricca. Ovviamente c’è l’altro lato della medaglia: condizioni di lavoro pesantissime, con elevati rischi per la salute dei lavoratori e dei propri familiari, turni massacranti e impiego di forza lavoro minorile sia per la raccolta che per la lavorazione dei rifiuti. Il sindacato degli zibbelin ha tutto da guadagnare dall’uscita di scena dei colossi italiani e spagnoli, anche se ciò non gli garantirà di sedersi al tavolo delle trattative con il governo centrale, nuovi appaltatori stranieri sono dietro l’angolo per tuffarsi nel primo spiraglio che il governo aprirà. Le prospettive di Guindy devono però fare i conti con una metropoli come quella de Il Cairo che di giorno annovera 25 mln di abitanti e dove gli slam sono interamente abbandonati a loro stessi, con cumuli di spazzatura che inondano letteralmente le strade

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È proprio lì che nasce la sfida del sindacato: riportare la presenza dello Stato anche attraverso infrastrutture basiche come afferma lo stesso Guindy: «La pulizia è un dovere di pubblica utilità, e dovrebbe essere garantita come l’acqua corrente e l’elettricità, dovrebbe essere strutturato a livello centrale dal governo che dovrebbe pagare come un bene di pubblica necessità». Spesso in Egitto la corruzione delle amministrazioni centrali e locali costituisce il primo ostacolo proprio alla realizzazione dei progetti di pubblica utilità di cui parla Guindy. La legge sugli investimenti del novembre del 2013 del nuovo governo di Al Sisi purtroppo non va in tale direzione, perché impedisce a terze parti di denunciare qualsiasi contratto viziato da palesi atti di corruzione. Il reciclaggio è l’unica alternativa vera su cui il governo può veramente puntare per evitare che la spazzatura diventi un problema di salute pubblica più di quanto non lo sia già, e investire pesantemente su pubblicità progresso che educhino e sensibilizzino maggiormente il cittadino.

Il sindacato si occupa anche del lavoro minorile che, come afferma Guindy «è una delle priorità, sebbene molti padri vogliono che i figli lavorino con loro perché non possono permettersi di impiegare manodopera fuori dal nucleo familiare. Purtroppo le famiglie sono molto numerose e devono sopperire ai bisogni essenziali. Negli ultimi anni sono state aperte due scuole nel quartiere, prima erano troppo distanti per poterle frequentare«. Per Guindy «Il 60% dei bambini segue le lezioni dopo il lavoro», stime troppo ottimistiche se si considera che la scuola maschile annovera solo 193 studenti. È pur vero che il lavoro minorile rappresenta un problema nazionale e non solo degli spazzini, una calamità a cui lo Stato non sembra in grado di far fronte se si considera l’ingente mole di bambini di strada, circa 1,5 mln, facilmente soggetti a sfruttamento (stime Unicef: http://www.unicef.org/infobycountry/egypt_statistics.html).

Negli ultimi anni sono state aperte due scuole nel quartiere, prima erano troppo distanti per poterle frequentare. La scuola Taswir adotta il metodo Montessori. La direttrice, Leyla Zaghalul, spiega come è nata: «È stata fondata nel 2000 con il supporto dell’Unesco attraverso il CID (International Council for Dance). La nostra scuola non ha un’organizzazione vera e propria, ci sono 193 alunni dai 9 ai 18 anni, è aperta dalle 9 del mattino alle 9 di sera. L’alunno viene quando termina di lavorare, non ha un orario preciso, è libero di frequentare tutti i giorni o solo una volta a settimana. Quando arriva c’è una scheda con i suoi documenti e i compiti da svolgere, ovviamente continua dal punto in cui aveva terminato». Si insegna l’alfabeto attraverso il suono delle vocali e attraverso quello che può essere scritto sui cartoni e sulla plastica che i bambini raccolgono in modo che sappiano che cosa stanno maneggiando durante il lavoro. Si insegnano parole che «si trovano» fuori dal quartiere, come rivoluzione o parole legate agli eventi che accadono nel paese come quelle delle scritte sui muri dei graffiti de Il Cairo. Continua Zaghalul: «La scuola è fornita di una mappa che include tutti i quartieri della città per insegnare agli alunni il nome delle strade e dei negozi più importanti perché costituiscono punti di riferimento per iniziare a lavorare». La toponomastica serve soprattutto a far capire ai bambini che un quartiere non è costituito solo dalle 4-5 strade in cui lavorano, ma è molto più grande.

La dottoressa Zaghalul descrive le modalità dell’insegnamento: «Vengono fatti eseguire esercizi di matematica attraverso l’uso di immagini grandi per aiutare la comprensione e rendere la materia più intuitiva. Imparare a contare è molto importante per i bambini per capire il valore dei soldi quando devono prenderli per conto dei genitori. Siamo una scuola diversa da quella statale, ma gli obiettivi vengono raggiunti: il ragazzo impara a leggere e scrivere, a riempire moduli amministrativi e ad avere un’infarinatura di cultura generale». C’è un programma che prevede l’aspetto manuale e pratico in cui viene insegnato praticamente il lavoro. I bambini devono dividere per colore le bottiglie di shampoo, togliere le etichette, e inserirle nella macchina trituratrice. La plastica viene completamente sminuzzata e rivenduta ad aziende esterne o del quartiere per 8 lire egiziane, mentre i bambini le comprano a 4 LE (circa 50 cent).

È un viatico pragmatico per insegnare il futuro lavoro a cui nessun bambino è esente. Nella scuola c’è una sala computer, un teatro, giochi e colori. Zaghalul rivela: «Insegniamo anche l’arte e a disegnare perché servono allo sviluppo completo dell’individuo. Purtroppo i bambini qui a nove anni sono già adulti, cerchiamo di dare un senso diverso alla loro infanzia rubata. Roman Alf, è nato nel quartiere e lavora come zibbelin da quando ne aveva 8 anni, come Antonio Albert, 24 anni, nato anche lui nel quartiere e ha iniziato a lavorare a 13 anni, lavora da 6 nella fabbrica di stampelle per abiti. Geogis Sabir, rimane sul vago, afferma solo di lavorare da circa un mese in una dei garage di raccolta della plastica insieme a Roman.

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Ci sono anche eccezioni, come quella di Mohamed Saad, ormai sessantenne che vive nel quartiere da 32 anni, ed è meccanico da 47 anni.

Aida Aeb insegna a realizzare tappeti presso la scuola Madrasat Al Benet, fa parte dell’associazione dell’Ambiente e dell’Inquinamento (Gamahaiyyat Al Biha wa Al Galawz), delinea le modalità di insegnamento: «Le ragazze hanno dai 12 ai 14 anni e imparano la filatura dei tappeti. È una scuola pratica che le condurrà a trovare lavoro più facilmente, anche perché molte del quartiere non frequentano una scuola pubblica o la abbandonano da bambine. Insieme alla filatura insegniamo a leggere e scrivere. Per incentivare la presenza delle allieve, i lavori che realizzano vengono venduti e le studentesse prendono quasi tutti i proventi». Le ragazze comprano i tessuti da riciclare nel quartiere che poi dividono per colori, i filamenti vengono ammassati in lungi fili e poi viene fatto il taglio del materiale. Continua Aeb: «Dopo di che si insegna come cucire i tappeti sia con il telaio che a mano. Il corso dura 3 mesi e gli orari vanno tutti i giorni dalle 8 del mattino alle 3 del pomeriggio. Due ore dedicate alla lettura e alla scrittura, il resto alla pratica. Si va per step, all’inizio si cuciono solo tappeti di un colore, poi quando si raggiunge una certa manualità si fanno a due colori e successivamente a più tonalità. Un altro passo è quello di disegnare figure e forme diverse nel tappeto. Un’altra possibilità è quello di cucire borse». Aida Aeb spiega come la collaborazione tra la scuola e le praticanti vada oltre la durata del corso: «Una volta terminato l’apprendimento proponiamo alle ragazze lavori su commissione che possono portare a termine a casa o presso le nostre strutture. Hanno la possibilità di comprare il telaio pagando a rate mensili. Le ragazze possono prendere l’iniziativa anche da sole, portando a casa un quantitativo di tessuti grezzi da lavorare a casa secondo il proprio gusto, una volta terminato portano i capi all’associazione la quale penserà alla vendita». Aeb ci tiene a precisare che oltre ai tappeti e alle borse si cuciono anche vestiti ed esistono collaborazioni con l’Università Al Amr nel quartiere di Cairo Vecchia e con l’estero dove vengono inviati esempi di lavori delle alunne successivamente commissionati attraverso il commercio equo e solidale. Madam Saada, un’altra insegnante, puntualizza come i materiali tessili siano tutti riciclati, comprati direttamente dalle fabbriche di riciclaggio del quartiere.

Viola Amed, ha 14 anni e da tre anni frequenta la scuola per imparare il lavoro di tessitura, insieme a lei c’è la sua amica Martina Saed, 16 anni, che è iscritta solo da un anno, entrambe preferiscono appoggiarsi alle strutture scolastiche per l’attrezzatura «Per noi risulta più facile riuscire a vendere i nostri capi», afferma Saed. Un’altra ala della scuola è dedicata al riciclaggio della carta che verrà usata per fare decorazioni e lampade. Sabah è una giovane praticante: «Prendiamo la carta usata dalle scuole di Sabarahat, la trituriamo e la mettiamo dentro la macchina amalgamatrice, l’impasto che ne esce viene steso sulla pressatrice che le appiattisce fino a farla diventare sottile come fogli di giornale. Quest’ultimi vengono lasciati in acqua nitrata, dopo di che i fogli vengno messi ad asciugare appesi a dei fili. Da un impasto se ne ricavano circa 15 fogli che vengono separati da stracci e messi sul legno un giorno intero per far uscire completamente l’acqua residua». Un altro team munito di colla e di pazienza si dedica a ricavare-costruire i prodotti che verranno destinati alla vendita: sottobicchieri, ornamenti, lampade … In maniera diversa le due scuole danno una possibilità di futuro ai bambini di un quartiere che viene denigrato dal resto dei cairoti, gli zibbelin sono visti di malocchio dagli abitanti della città de Il Cairo che li reputa di un livello sociale e intellettivo inferiori. Questo è un problema non solo dello Stato, ma di una cultura che divide nettamente la società in classi che è difficile da estirpare.