C’è chi si spaventa, a vedere molti libri assieme, e chi, invece, prova una sorta di rassicurante senso di protezione a contatto con muri di carta attorno. Se siete bibliofobi è meglio che non entriate mai nella casa romana di Andrea Camilleri. È una vertigine incombente di carta e di inchiostro. Le pareti scompaiono dietro i dorsi di migliaia di titoli. Strumenti di lavoro, strumenti di piacere e di conoscenza di una vita.

Camilleri ha iniziato a leggere giovanissimo. Con voracità e velocità. Mandrake e l’Avventuroso si alternavano a romanzi ponderosi. Andrea Camilleri ha ricevuto di recente dal Comune di Genova il Grifo d’oro, riconoscimento che va a chi, in qualche modo, è riuscito a far conoscere un po’ meglio la dura città ventosa della lanterna e i suoi abitanti. Il Grifone, nella mitologia, è un animale con testa d’aquila, il corpo possente è quello del leone. È simbolo di lungimiranza e di capacità di protezione, i grifoni proteggevano i tesori nascosti.

Camilleri è un vecchio grifone che ha protetto, con lungimiranza, il tesoro più prezioso che ci sia per le persone in questo mondo: l’arte di raccontare storie. Quello che ci salva, ci preserva. Camilleri ci ha reso un po’ più umani.

In questo momento, ad esempio (ma mentre leggerete queste righe può darsi che l’orologio editoriale sia già andato un po’ più avanti) i libri più recenti sono I Sogni di Camilleri, cofanetto celebrativo per i suoi radiosi ed affollatissimi novant’anni regalatogli da Sellerio, La targa, ennesimo affondo in quel fascismo lontano che fu tragedia e farsa assieme, per gli italiani, e Le vichinghe volanti, storie scollacciate e vitali della sua immaginaria e vitalissima Vigata, un attizzatoio della memoria senza fine.

Se la sorte e i casi della vita non l’avessero portato a vivere perlopiù a Roma, già ben lontana da Porto Empedocle – Vigata, Camilleri avrebbe scelto Genova.

Per motivi di misteriosa familiarità: «Ci arrivai nel 1950, per le Olimpiadi culturali della gioventù. Genova venne invasa da giovani speranze di tutti i campi artistici, le giurie facevano spavento: c’erano Galvano della Volpe, Massimo Bontempelli, Enzo Ferrieri, Sibilla Aleramo. Vinsi ex aequo il primo premio di poesia. Mi ci sono perso, a Genova, nel porto, nei carrugi, attaccavo discorso con la gente. Nell’angiporto sparirono tutti all’improvviso quando provai a chiedere un pacchetto di sigarette di contrabbando, pensavano fossi un poliziotto, dall’accento siciliano. Incontrai anche una bella ragazza Raffaella, che mi chiese di accompagnarla a Boccadasse, e fu il secondo colpo di fulmine, l’aria, l’odore del mare. Me ne ricordai per costruire il personaggio di Livia Burlano, la fidanzata di Montalbano. Il mare di Amburgo non ha lo stesso odore di quello di Genova, che mi ricordava quello del mio paese, Porto Empedocle. E provavo una simpatia istintiva per la parlata, per i tratti di carattere della gente. Giravo imbambolato, come se mi trovassi in una città tutta mia istintivamente. La stessa sensazione, devo dire, che provai al Cairo. Arrivai a mezzanotte, alle tre mi telefonò mia moglie che mi disse «come ti trovi?» Sono a casa mia, le risposi».

Lo scorso anno è uscito un bel saggio di Jonathan Gottschall, L’istinto di narrare / come le storie ci hanno reso umani. Richiama molto da vicino quanto ha scritto il suo amico Antonio Tabucchi: «L’uomo ha imparato a vedersi e capirsi ed è entrato nella civiltà come la conosciamo quando ha imparato il racconto. Concorda?

«Del tutto. Raccontarsi non è solo minutamente descrivere. Porta con sé una sfumatura, un alone, dentro il quale entra l’ascoltatore, un cerchio magico che crea solo racconto. La conoscenza reciproca, più che attraverso la carta di identità, si fa attraverso il racconto di sé rivolto agli altri».

Saramago diceva di aver imparato a narrare racconto dai racconti di suo nonno bracciante analfabeta.

«Io mi facevo raccontare le storie dal mezzano di mio nonno, storie contadine favolose che poi ho ampiamente rubato per i miei libri».

Chi non legge pensando che sia qualcosa di noioso, cosa si perde?

«Perde innanzitutto una parte di se stesso. Se è importante sentirsi unità compiuta per scelta personale, chi non legge non perché non può, ma perché non vuole, sappia che non vuole scientemente crescere né conoscere se stesso. Perché attraverso la comparazione di sé con la lettura si cresce. Io debbo tutto alla medicina: perché quando avevo sei anni non esistevano i vaccini, e io mi beccavo tutte le malattie infantili una dopo l’altra. Stare a letto era una meraviglia. Non si andava a scuola, la tele non era stata ancora inventata, la radio era un armadio. L’unica cosa che restava era la lettura. Mio padre era tutt’altro che un intellettuale, ma aveva un fiuto intellettuale straordinario per i buoni libri. E io gli chiesi, con una sorta di autocensura, quali potessi leggere, lui mi rispose: «Tutti quelli che vuoi. Così io, in primis, tirai fuori La follia di Almeyer di Conrad, il suo primo romanzo, e me lo lessi d’un fiato. Le letture per ragazzi le recuperai dopo. A novant’anni posso dire che se sono cresciuto un contributo enorme me lo ha dato la lettura, oltre che l’esperienza. Aiuta a capire le ragioni degli altri, che magari non condividi, ma le comprendi. Chi non legge vuole essere povero».

Torniamo a Tabucchi. Lui diceva che le storie, le ispirazioni provengono o dalla cronaca dei giornali, o dai racconti di altri, oppure da narrazioni concesse dagli dei che ci cascano in testa come palloncini.

«Le dico una cosa, con Tabucchi ci siamo inseguiti per tutta la vita, senza mai riuscire a incontrarci fisicamente. Qualcosa ha congiurato in tal senso. Telefonate, cartoline. Comunque, mi riconosco in tutte e tre le affermazioni. All’inizio della mia scrittura io non sapevo inventarmi nulla, per cui avevo bisogno di fatti di cronaca che poi stra-cambiavo, per i romanzi storici come La mossa del cavallo parto dalla pagina di un libro di storia, che mi fa da innesco. Crescendo è cominciata ad arrivarmi qualcosa dall’alto. Ed è un rischio. Mi capitò di scrivere uno dei primissimi racconti, e Sciascia lo volle, Capitan Caci. Dopo una settimana comprai Due storie del porto di Bahia di Jorge Amado, scrittore che adoro, e con stupore immenso lessi un episodio identico a Capitan Caci. Telefonai a Sciascia, gli dissi: «non si può pubblicare, tutti diranno che l’ho copiato». Non riuscivo a spiegarmi il fatto, fin quando un giorno mi trovo a leggere uno degli ultimi articoli di Calvino, che recensiva un libro di storie fantastiche della letteratura italiana. E Calvino scriveva che un racconto, Lo Zio, lo aveva fatto rabbrividire, perché ne aveva nel cassetto uno suo identico. Forse per gli scrittori esiste una biblioteca archetipale, dove ogni tanto uno scrittore prende un libro, lo legge, e lo rimette a posto. Capace che a volte capiti che due scrittori attingano allo stesso libro archetipale».

Camilleri, De André ha detto una volta che una lingua nazionale come l’italiano sarebbe già finita miseramente come lingua per vendere patate e baccalà, se non si fosse nutrita degli idiomi locali, dei dialetti..

«Non sapevo di avere un fratello gemello di pensiero. E che fratello. Sottoscrivo in pieno».

Un nome che ritorna. Lo scrittore Bajani mette in bocca al Tabucchi degli ultimi giorni la definizione dell’ignoranza come di un pieno, un muro. E i muri si possono solo abbattere, o scavalcare.

«Meglio abbatterli. I muri sono un simbolo di stupidità. Quando sbarcarono gli alleati in Sicilia, e io disertai, rifugiandomi nella villa di una mia zia, lei si illuse di tener lontano la guerra dalla sua enorme pistacchiera con un muro di filo spinato. Gli Sherman americani lo buttarono giù senza neppure vederlo. Altro che muri. Ancora gente ne deve arrivare. E forse sarà la nostra salvezza».

Josè Saramago diceva che non sempre è possibile aver idee originali, già basta averne di praticabili. È così?

«Sottoscrivo. E soprattutto che le idee siano praticabili dagli altri, da chi ti legge e può condividere. È una gratificazione degli ultimi anni della mia vita che è arrivata inaspettata e immensa».

Camilleri, il Mediterraneo è in fiamme.

«I pescatori del Mediterraneo avevano un tempo una lingua esperanto fatta da suoni di tutte le sponde per capirsi, il Sabir».

Il Suonatore Jones, personaggio poetico di Edgar Lee Masters sul quale De André ha scritto una magnifica canzone conclude, dopo aver molto vissuto, di avere montagne di ricordi,e nessun rimpianto

«Concordo parola per parola. Io ho avuto una vita fortunata, ho avuto figli, nipoiti e pronipoti lavorando, e ho lavorato, anche duramente, facendo quello che mi piaceva fare, il regista, l’insegnante, il produttore, lo scrittore. Una cosa che capita in sorte a pochi. Scrivere è anche faticoso, ma io amo la figura della trapezista col sorriso sulle labbra che non ti fa arrivare nulla del rischio del salto mortale e dell’allenamento. Il lettore non deve sapere della fatica dello scrivere. E anche così, dico sempre, è sempre meglio che scaricare casse alle tre del mattino in un mercato».