I «Ricordi della giovinezza» che danno il titolo al nuovo film di Arnaud Desplechin (in Italia esce però come I miei giorni più belli, a Roma e Bologna e on demand sulle principali piattaforme) sono quelli di Paul Dedalus, antropologo e viaggiatore irrequieto, uomo dall’abile ingegno e dall’abilissima lingua, perennemente in fuga, incantatore e seduttore precoce. Dopo molti anni passati a girare i paesi dell’ex impero sovietico, Paul lascia il Tajikistan per fare ritorno in Francia. Non perché gli vada, ma perché «deve farlo». Cosa lo obbliga a questo ritorno nel tempo e nello spazio? La politica? La morale? L’amicizia? L’amore? Il film non risponde direttamente. Ma i tre ricordi che lo strutturano sono un tentativo di svelare il mistero questo imperativo mnemonico.

Il primo ricordo è quello legato all’infanzia e alla famiglia. La madre si toglie la vita. Paul, che la odia, consacra tutto il suo amore alla nonna. Questo piccolo intreccio evoca Mes petites amoureuses di Jean Eustache. E il fatto che nel ruolo della nonna si trovi Françoise Lebrun, l’infermiera de La Mamman et la putain, lo conferma. Conferma cosa ? Che se da un lato Paul Dedalus è un alter ego di Desplechin, e molti dettagli lo indicano, d’altro canto il film intreccia altri fili e altri ricordi, uno dei quali è il riferimento alla storia del cinema francese. Storia che Desplechin fa e disfa, annodando il proprio cinema con quello della Nouvelle vague, confrontandosi con essa come fosse parte della storia di famiglia.

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Ma anche giocando e divertendosi a fare altro. Il secondo ricordo è una sorta di incursione nel film d’azione e di spionaggio internazionale. Un genere che sembra lontano dalle corde del cinema d’autore francese. Ma che Desplechin ha trattato, reinventandone i codici, all’inizio degli anni novanta con il suo primo lungometraggio: La Sentinelle (1992). C’era in quel primo film un idea antica, di matrice hitchcockiana: la testa di un morto che salta fuori dal nulla. E un’intuizione politica: la testa, che pure arriva dall’Est, annuncia un riposizionamento del conflitto globale, dalle ideologie verso le etnie.

Il terzo ricordo è il più intenso, e di conseguenza quello nel quale il tempo si espande di più, sprofondando la coscienza nella piramide della memoria. Si tratta del grande amore di Paul per Esther. Anche questo ricordo è a sua volta cinematografico. Parliamo del secondo lungometraggio di Desplechin, e del film che lo ha reso uno dei registi più interessanti della sua generazione: Comment je me suis disputé, ma vie sexuelle. C’erano in quel film mille ambizioni: raccontare il mondo dell’università francese, Parigi nel mezzo degli anni novanta, raccontare una storia d’amore. Tutti topici del cinema francese d’autore. Ma farlo con una struttura che sta al cinema transalpino come Le iene di Tarantino sta al cinema indipendente americano. Si trattava di inventare una struttura completamente nuova, per il cinema, per il racconto, per il ricordo.

I miei giorni più belli è al tempo stesso un prequel e un sequel di Comment je me suis disputé (1996). Ritroviamo Matthieu Amalric nel ruolo di Paul. Con vent’anni di più sul viso. Perfetto per il sequel. Scopriamo due bravissimi nuovi attori: Quentin Dolmaire e Lou Roy Lecollinet, nelle parti rispettivamente del giovane Paul e della giovane Esther. È la loro fragilità e bellezza a dare corpo e sensualità al viso segnato del vecchio Paul. Questa logica, per cui quello che viene dopo sembra più originale rispetto a quello che lo precede, è l’architettura delle tutto il cinema di Desplechin; che non si basa mai sull’azione (nel senso del dramma) ma sempre sulla riflessione, autoanalisi, memoria. E la memoria che dà la forma al suo cinema e che spinge la storia a risalire la corrente della vita in cerca della foce di tutte angosce.

Ne esce fuori una materia singolare, privata e cinematografica al tempo stesso. Emozionante? Sulla carta, si tratta di una storia d’amore. Ma è difficile dire fino a che punto Desplechin filmi un rapporto. Certo, i due amanti non smettono di parlarsi, di raccontarsi, di inviarsi lettere, messe in scena come faceva Truffaut ne Le due inglesi:con il mittente che declama il testo rivolto alla macchina da presa. Nonostante tutti questi campi e contro-campi, il film non diventa mai un vero scambio. Il labirinto di Paul Dedalus è stracolmo di personaggi ma, come in sogno, sono tutti proiezioni del suo io. Due conseguenze. La prima è che il film, che narra azioni eroiche e i sacrifici di Paul, è soprattutto una grande impresa di auto assoluzione. La seconda è che l’io, essendo sia la materia del mondo che la sua unità di misura, è un universo senza dimensione, al tempo stesso titanico e minuscolo.

Alla fine dei tre ricordi un monito: non ti riconcilierai. Se il passato non può essere ritrovato, non è perché sia trascorso ma perché è invece sempre presente. L’io è il minotauro che il nostro eroe affronta. Esther, come Arianna del mito,non è che una comparsa. Fornisce il filo narrativo, ma poi scompare. L’amore è straziante, ma mai veramente tragico. Quello che devasta l’eroe è meno l’assenza di Esther che la propria insopportabile onnipresenza. Paul dice che «l’intelligenza femminile non lo ha mai interessato» e, con un’acrobazia, conclude che per questo si era innamorato dello spirito sfrontato di Esther. Sperando di venire a capo del labirinto, il maschio deplechiniano risale il filo dei ricordi. Ma dall’altro capo del filo trova sempre e solo se stesso.