Il presidente russo Putin è intervenuto ieri per chiedere il rispetto immediato del cessate del fuoco in vigore fra Azerbaigian e Armenia. Il Cremlino – preoccupato per le ultime evoluzioni – ha fatto un appello alla calma e alla responsabilità, affinché si evitino altre vittime civili. Fra venerdì notte e sabato mattina, lungo la linea di confine fra l’Azerbaigian e la regione del Karabakh, occupata dagli armeni, si sono verificati scontri come non se ne vedevano da più di vent’anni. Il Caucaso, regione strategica per Mosca e per l’Occidente per la presenza di giacimenti di petrolio e gas, torna a dare segnali allarmanti.
Il tragico bilancio degli scontri è di trentadue morti, molte decine di feriti e almeno un elicottero abbattuto. Fra le vittime, anche due civili, tra cui un bambino armeno di 12 anni, morto dopo che la sua scuola in Karabakh è stata colpita da un lanciarazzi Grad. Altri due studenti feriti della stessa scuola sono in gravi condizioni.

Quella di ieri è la peggiore escalation di sempre nel conflitto fra Azerbaigian e Armenia per il territorio del Nagorno-Karabakh. Era dagli anni novanta, da quando era guerra aperta, che non si vedevano così tanti morti in un solo giorno. Mai prima d’ora il fragile equilibrio del cessate il fuoco firmato dalle due parti nel 1994 è sembrato sul punto di cedere. Se è vero che escalation si verificano a scadenza quasi mensile sin dagli anni novanta, l’ultimo periodo – soprattutto a partire dall’anno scorso – ha fatto temere che la situazione sia ormai fuori controllo. E nella regione, oltre ai colpi e alle vittime, tornano a farsi sentire le sirene mai sopite del nazionalismo e dell’odio etnico, alla base di questo conflitto nato per un’enclave armena in Azerbaigian alla fine dell’Urss.

Da parte azera, il ministero della difesa ha confermato che ci sono state 12 vittime nelle loro fila, oltre a un elicottero abbattuto. Fonti armene parlano invece di due elicotteri, e la stampa di Yerevan ha pubblicato le foto di un drone azero – perdite non confermate dal fronte nemico. Il presidente armeno Serj Sargsyan, tornato proprio ieri dagli Stati uniti, è apparso in tv per fornire il computo delle vittime della sua parte. 18 morti fra i soldati, 25 feriti, oltre alle due vittime civili già ricordate.

Preoccupante anche l’utilizzo di armamenti sempre più pesanti, soprattutto da parte azera. Una crescita nell’intensità di fuoco che prosegue un trend iniziato già nelle escalation dello scorso anno. Fra gli armamenti utilizzati ieri razzi, missili, mitragliatori, elicotteri e carri armanti. La definizione di conflitto congelato, utilizzata per molti anni dagli analisti militari per definire il conflitto fra Azerbaigian e Armenia, sembra sempre più difficile da giustificare.
Oltre a Putin, sono intervenuti anche il ministro degli esteri tedesco Steinmeier, che ricopre al momento la presidenza dell’Osce. «Non può esserci alcuna soluzione militare al conflitto», ha ricordato, invitando le due parti a tornare al tavolo della pace. Da parte sua, Federica Mogherini in un comunicato ha condannato la violazione del cessate il fuoco invitando i due paesi a una pacifica risoluzione del conflitto.

Particolare significativo, l’escalation di ieri ha avuto luogo al termine del viaggio americano dei presidenti di due paesi. Il vicepresidente degli Usa Joe Biden, alla vigilia degli scontri, aveva incontrato separatamente a Washington il leader azero Aliyev e l’armeno Sargsyan, tentando un rilancio della pace per questa guerra infinita. A poche ore dalle sue dichiarazioni, è arrivata dal Caucaso la risposta definitiva al suo appello. Altri analisti interpretano invece gli scontri di ieri come schermaglie di confine sfuggite di mano alla due parti.

Nato negli anni della fine dell’Urss, il conflitto del Nagorno-Karabakh è proseguito come conflitto aperto fino al 1994, quando si è giunti al cessate il fuoco.. L’accordo di pace, che sembrava profilarsi negli anni seguenti, non è mai arrivato, e così questo territorio è rimasto prigioniero per un quarto di secolo di una contraddizione. Ufficialmente ancora parte dell’Azerbaigian, ma costituitosi stato de facto con un presidente e un parlamento – con l’appoggio di Yerevan – dopo la vittoria armena nel conflitto.