Se la lucidità dei ricordi sia un bene da coltivare o se sia auspicabile, in realtà, la nebbia che a volte li avvolge: è questo l’interrogativo sul quale Kazuo Ishiguro torna via via più insistentemente nel suo nuovo romanzo Il gigante sepolto (prodigiosa traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 313, euro 20,00) tra le cui pagine, man mano che i nodi si sciolgono, i personaggi rivelano gli scopi che li muovono così che tutti o quasi i misteri si dissolvono.
La predilezione di Ishiguro per i contenuti metaforici ha eletto questa volta a suo teatro ideale una terra contesa tra Sassoni e Britanni in un tempo indeterminato ma non di molto posteriore alla morte del leggendario re Artù. Sebbene precaria, la pace regna ora tra i due popoli, dimentichi delle ragioni che li avevano portati a odiarsi, così come immemori del loro passato appaiono tutti gli uomini e le donne della contrada, da che il fiato di un drago-femmina ha steso veli impenetrabili sui loro ricordi.

La landa è poverissima, desolata all’orizzonte di una vasta torbiera, le costruzioni sono sotterranee, cuniculi bui dove vivono, in comunità con altri villici rancorosi, due buoni vecchi uniti da un amore incrollabile. Un giorno, Axel e Beatrice, questi i loro nomi, decidono di intraprendere – in quella terra popolata di orchi, folletti e creature sinistre – un viaggio per ricongiugersi al figlio, che forse li aspetta in un altro villaggio. Non è certo, per la verità, cosa li attenda, né perché il figlio si sia a suo tempo allontanato da loro.

Nel viaggio resisteranno a traversìe di ogni genere, incontreranno un valoroso cavaliere mandato dal suo sovrano a uccidere Querig, il drago che cancella i ricordi, e faranno amicizia con un improbabile nipote di re Artù, lo sgangherato ser Galvano, che si vanta di avere combattuto i più temibili satanassi, ma benché sia stato destinato anche lui alla eliminazione del drago ha lasciato passare decenni senza battere un colpo. E, tra le figure più misteriose, Axel e Beatrice incontreranno un barcaiolo, dal cui arbitrio dipende la sorte delle coppie che gli chiedono un passaggio all’altra sponda, perché solo chi può esibire un solidissimo legame otterrà di ricongiungersi a colui che, per primo, ha guadagnato l’altra riva. Molte diverse figure si materializzano sul fondale dove si muovono i due vecchi, finché Querig il drago verrà raggiunto, stanato e ucciso, mettendo fine all’incantesimo che avvolgeva la memoria di Sassoni e Britanni, ora dunque di nuovo nemici.

Axel e Beatrice sono finalmente di fronte a ciò che il fiato del drago aveva pietosamente obnubilato, il figlio non è stato raggiunto né potrà esserlo, il loro amore resiste benché riveli smagliature a suo tempo sanate, ogni personaggio andrà a incastrarsi nel tassello previsto dal suo destino prima che il fiato del drago lo facesse smarrire.

Dieci anni dopo il suo precedente romanzo, Ishiguro si avventura nei territori di un fantasy che può irretire il lettore o respingerlo, ma di cui non si può fare a meno di ammirare la scrittura sapientemente in equilibrio fra echi medievali e moderna intellegibilità, mentre la strategia romanzesca rinuncia a quelle digressioni che nei precedenti romanzi avevano reso a volte esaltanti le pagine di Ishiguro e fila diritta a tirare tutte le somme della trama senza tuttavia arrivare a sigillare il cerchio. E, certo, meglio sarebbe sapere di potere leggere quanto esibito da questo testo fiabesco senza cercarvi recondite allusioni sociali: ciò che ha fatto infuriare uno storico detrattore di Ishiguro, il critico James Wood, che gli ha dedicato un saggio sul «New Yorker», dove attacca le pretese del romanzo di alludere a una amnesia storica; ma lo fa invocando criteri di verosimiglianza e di coerenza – «insomma di che si tratta, di una nebbia o di una pioggia intermittente?» scrive a proposito della diseguale incidenza dell’oblio sui ricordi dei personaggi – francamente trascurabili, a fronte del confusivo incanto che investe chi vive nelle terre del drago. E noi con loro.

Kazuo Ishiguro è passato da Mantova la settimana scorsa, da circa dieci anni non veniva in Italia, è stata una buona occasione per chiedergli di farci da guida nei misteri sepolti tra le pagine del suo Gigante.

Lei ha scelto di affidare gran parte del romanzo a un narratore che comincia schernendosi così: «Non ho alcun desiderio di lasciar intendere che allora il territorio britannico fosse grossomodo questo e niente altro»; oppure: «Mi dispiace offire questa immagine del nostro paese…». A chi corrisponde, nella sua immaginazione, questa voce e qual è ruolo che le ha assegnato?

Per molto tempo è stata mia intenzioni consegnare a questo narratore un ruolo più significativo di quello al quale si è poi ridotto, ma ridimensionai la sua presenza perché mi pareva che distraesse troppo il lettore. Tuttavia, avevo chiaro fin dall’inizio che il pubblico al quale si sarebbe rivolto raccontando la storia di Axel e Beatrice era composto da bambini innocenti, morti in conflitti bellici: doveva essere una voce moderna che parla da un ambiente sovrannaturale. E questo voi al quale si rivolge corrisponde, appunto, alle vittime delle guerre scoppiate lungo tutto il corso della nostra storia. Ora che questa voce ha subìto tante trasformazioni e il suo protagonismo è stato ridotto, capisco come il suo ruolo non risulti più tanto chiaro. Resta il fatto che mi sono reso conto, via via che avanzavo, di quanto questa voce narrante mi tornasse utile: era una ottima guida per aiutare il lettore a muoversi nello strano mondo che stavo inventando e dunque ho deciso, per motivi molto pratici, che l’avrei mantenuta.

Tuttavia, a due personaggi, quello del barcaiolo che traghetta le coppie di sposi verso una isola misteriosa e quella di ser Galvano, il nipote di re Artù, lei ha consegnato una voce propria, facendoli parlare in prima persona. Come mai questa eccezione per loro due?

Perché volevo ottenere per questi personaggi quell’effetto di intimità che il racconto in terza persona non consente. In passato, i miei romanzi sono stati sempre narrati in prima persona ma qui non volevo che ci fosse un solo protagonista, desideravo mettere in campo tanti punti di vista capaci di restituire tutti gli aspetti che entrano in gioco in una società. A un certo punto, ho sentito l’esigenza di entrare nella testa di Galvano e, per quanto riguarda il traghettatore, sebbene avessi cominciato a descriverne le gesta in terza persona, mi resi conto, poi, che l’effetto sarebbe stato molto più potente dandogli una voce sua. Dopo avere accompagnato Axel e Beatrice lungo il loro viaggio viene il momento in cui, per apprezzare ciò che sta succedendo, funziona meglio prendere le distanze dalla loro prospettiva e vedere le cose dal punto di vista di altri personaggi. Mi è sembrato che questa strategia narrativa permettesse di ottenere un maggiore impatto emotivo.

Questa non è la prima volta che lei mette i suoi personaggi nelle condizioni di perdere la memoria. Accade a Ryder, il protagonista degli «Inconsolabili», e anche al narratore di «A village after the dark», il racconto che pubblicò nel 2001 sul «New Yorker». Sembra essere un tema che le sta molto a cuore…

Si, è così. In realtà, fin dall’inizio del mio lavoro di romanziere ho avuto uno speciale interesse per il modo in cui la gente ricorda e per come dimentica: ho sempre concepito questo motivo come una chiave attraverso cui arrivare a altro. Sia in Un artista del mondo effimero che in Quel che resta del giorno analizzavo il modo in cui anche la persona più idealista, anche chi è dotato delle migliori intenzioni, può a volte contribuire, senza rendersene conto, a azioni nefaste; e da qui sono passato a tentare di capire quanto sia difficile distinguere una buona causa da una che non lo è. Quando si è coinvolti in prima persona è difficile mantenere una prospettiva corretta su quanto sta accadendo e questo si rifletterà poi sulla memoria che di questi fatti si manterrà, una memoria che adopero come una lente in grado di farci vedere quanto è accaduto in modo deformato. In questo ultimo romanzo, evidentemente, l’atto del ricordare ha un ruolo importante: innanzi tutto per quanto riguarda i rapporti tra Axel e Beatrice, che non sanno se il loro matrimonio potrà resistere quando «il riposo della smemoratezza» li abbandonerà. Perciò si domandano se non sia meglio, a volte, dimenticare. Ma è davvero un solido amore quello che si basa su un oblio deliberato? Questo è il dubbio. Nel romanzo c’è però anche una dimensione di più ampio respiro, una prospettiva sociale: evocando la pace fittizia tra Bretoni e Sassoni intendevo alludere alle pretese di tenere insieme popoli diversi, trascurando il fatto di capire quali fossero i loro rapporti precedenti a questa pace imposta e radicata nell’oblio, che come tale non sapremo mai quanto e se potrà durare.

Quindi lei è d’accordo con Susan Sontag quando diceva che la memoria è fatta di ciò che accettiamo di ricordare e che, talvolta, per rendere possibile una riconciliazione bisogna accordarsi sulla necessità di dimenticare?

Certo che sì. A volte dimenticare è la scelta migliore perché mette fine ai desideri di vendetta e alla violenza che ne consegue, e questo tanto nei rapporti personali che in quelli collettivi: basterebbe pensare alla questione palestinese o, più vicino a casa mia, alla situazione dell’Irlanda. È proprio vero che a volte non può esserci alcun reale progresso finché non si decide di abbandonare al passato qualcosa di doloroso; ma quanto si può andare avanti facendo finta che questo qualcosa non sia mai accaduto? Se il gigante è stato sepolto ma non ucciso, prima poi potrebbe risvegliarsi. Sono stato recentemente in America per discutere di questo mio ultimo romanzo e ho trovato una situazione molto critica per quanto riguarda i rigurgiti di violenza legati alle questioni razziali. C’è chi ha suggerito di estromettere dai testi scolastici molte delle parti che trattano la storia dello schiavismo e delle segregazioni razziali, perché generano troppa rabbia inutile nelle giovani generazioni, soprattutto dell’America latina; ma altri sostengono che, in realtà, tutti i problemi attuali derivano proprio dal fatto che non si sono mai fatti i conti fino in fondo con le questioni relative alla schiavitù. Ci vorrebbe qualcosa come la Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, fatto sta che torna sempre in ballo l’equilibrio tra ciò che bisogna ricordare e cio che deliberatamente si sceglie di dimenticare.

Riandiamo al romanzo: come mai lei ha deciso di rappresentare il drago-femmina, che tiene in scacco la memoria degli uomini, in una postura così antierorica? La dipinge come una creatura vecchia e floscia, «così emaciata da assomigliare più a una sorta di rettile vermiforme». Eppure le sorti di Britanni e Sassoni dipendono dal potere del suo fiato…

Beh, effettivamente Querig è un po’ patetica, però questo non vuol dire che in passato non sia stata una figura eroica, forte, imponente. Il suo deperimento è un simbolo dell’enorme sforzo necessario a tenere sepolto ciò che è accaduto di doloroso; del resto, nascondere qualcosa logora profondamente, povero drago, e cercare di sopprimere i ricordi diventa per lei sempre più difficile con il passare del tempo. A un certo punto ser Galvano dice che anche quel poco fiato che resta al drago potrebbe essere sufficiente a non far ricordare più nulla per tutta la vita, e naturalmente c’è chi non è affatto d’accordo sul fatto che questo accada.

Perché, nella sua immaginazione, i monaci dai quali Axel e Beatrice cercano asilo, in realtà proteggono il drago?

Nel romanzo sono molte le figure che combattono con il dilemma rappresentato dal tenere o meno in vita il drago: alcuni vorrebbero annientarlo perché sia fatta giustizia dei torti perpetrati in passato, altri vorrebbero lasciare tutto com’è. I monaci sono una rappresentazione dell’estabishment, proteggono gli interessi di chi è arrivato al potere e nascondono i mezzi con cui lo hanno ottenuto. Credono di potere espiare grazie alle penitenze che si infliggono, ma c’è chi li disprezza per questa loro convinzione di potersela cavare chiedendo al loro dio di perdonarli, perché questo comporta una mancata assunzione di responsabilità. Come accade in tutte le situazioni in cui il potere è stato conquistato con la forza e la pace è stata imposta, i monaci sono terrorizzati dall’idea di perdere ciò che hanno acquisito: temono vendette. Mi piacerebbe, in futuro, ragionare meglio su questa idea cristiana del dio che tutto perdona, perché questo rende meno difficile compiere le azioni più atroci.

All’inizio del loro viaggio Axel e Beatrice incontrano una donna vecchia e cupa, che somiglia a un uccello nero, e ha tanti conigli in braccio, che ucciderà uno a uno. È una figura simbolica? A cosa allude?

È una donna lasciata indietro, sull’altra sponda del guado, dal marito che l’ha ingannata. Lungo tutto il romanzo ci sono anche altre figure di vedove che vagano in una atmosfera straniata, un po’ come fantasmi, sospese tra la vita e la morte. Effettivamente, la scena in cui compare questa donna che lei ricordava è molto importante, perché attraverso la sua figura viene introdotto un tema fondamentale della trama, quello che ha a che fare con il timore, e al tempo stesso la speranza, che accompagneranno Axel e Beatrice lungo tutto il romanzo: non è la morte quel che temono, ma il fatto che qualche memoria sepolta ritorni a dividerli; e ciò che sperano è di amarsi tanto che neanche la morte li separi quando verranno traghettati dal barcaiolo di là dal guado, su un’isola che possiamo pensare sia l’isola della morte.

Nel suo romanzo precedente, «Non lasciarmi», lei ha immaginato una fuga nel futuro, mettendo in scena dei cloni allevati per donare i loro organi. Qui, invece, nel «Gigante sepolto», la fuga è nell’alto medioevo della Gran Bretagna. Si sente più a suo agio evitando di ambientare le sue storie nel presente?

Nelle mie intenzioni, entrambi i libri riguardano il presente, anche se non in apparenza. Ho cominciato a scrivere Il gigante sepolto pensando a quanto è successo in Bosnia e in Ruanda negli anni novanta: proprio ricordando queste popolazioni che vivevano in una pace evidentemente fittizia, e che quasi all’improvviso si sono ritrovate al centro di tremendi conflitti, ho messo in scena la convivenza precaria di Bretoni e Sassoni. Nel caso di Non lasciarmi è vero che la trama sembra proiettata nel futuro ma in realtà siamo in quello che chiamerei «un presente alternativo», e anche in questo caso mi sono valso della grande libertà del romanziere, della enorme scelta a disposizione tra geografie e tempi storici, per regire a quanto accadeva intorno a me. Il mio è un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo effica ce fatti ai quali ci siamo tanto abituati da non accorgecene più.