Il Rossini Opera Festival torna ogni anno a sfatare banali e pericolosi luoghi comuni, come quello che vuole l’opera lirica morta e sepolta nel gradimento del pubblico. La manifestazione pesarese riesce non solo a riempire fino al «tutto esaurito» le sale, ma può vantare un pubblico attento, cosmopolita, e soprattutto di età media inferiore a quella di molti teatri. E quello che va in scena, oltre alla «qualità» che ognuno può giudicare liberamente, vanta una intelligenza inoppugnabile.

Quest’anno tra i tre titoli prescelti nell’archivio prezioso che la Fondazione Rossini ha coltivato in questi anni, ce n’era uno quasi di bandiera (oltre che un’espressione entrata nel linguaggio comune): Il barbiere di Siviglia. E altri due molto meno noti e correnti: Armida di rara rappresentazione, e il semisconosciuto Aureliano in Palmira. Con l’intelligenza che si diceva, il primo è stato affidato a dei «lettori» di nuova generazione, ovvero agli allievi (col loro docente Francesco Calcagnini) del corso di scenografia dell’Accademia di Belle Arti della contigua Urbino. Scelta giusta, che ha portato quel gruppo nutrito a riflettere in profondità, e quindi a elaborare, temi e spunti dell’opera che di solito sono ormai quasi trascurati, per la sua stessa notorietà. Come il rapporto tra un’opera e la sua rappresentazione nello spazio di un teatro e ancora di più il confronto tra contenuti, i loro interpreti, e modi e strumenti che lo possano trasformare in godibile spettacolo.
Deve essere stato un lavoro duro e impegnativo, che ha prodotto una quantità perfino «eccessiva» di intuizioni, spunti, modalità di percezione da parte dello spettatore, garantendo però una ricchezza non comune di possibili ascolti. Grazie anche alla partecipazione divertita degli interpreti: la quasi brechtiana Rosina, tanto era straniata Chiara Amarù, o l’eccellente Alex Esposito che cantava Don Basilio con la irresistibile perizia di un attore consumato. Mentre in tutto lo spazio si muovevano attrezzi e portantine, catafalchi e scale galeotte, mentre sul palcoscenico si andavano stringendo le sezioni riprodotte della sala, coronate perfino dal medesimo lampadario a gocce anch’esso in scala, a ribadire definitivamente la rappresentazione nella rappresentazione, o meglio l’autorappresentazione di una classe che sulle note di Rossini arriva a costruire la più «fedele» immagine di se stessa.

Di tutt’altro genere e respiro ovviamente è il lavoro di Luca Ronconi sulla Armida, creatura della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, e vera femme fatale (tanto che sugli stereotipi della dark lady hollywoodiana aveva lavorata lo stesso regista quando l’aveva messa in scena a Pesaro per la prima volta, ormai qualche decina di anni fa). Spettacolo di grande impianto eppure raccolto attorno al nucleo drammaturgico forte della contraddittoria protagonista. Carmen Romeu offre con la sua compostezza flessuosa il velenoso glamour della condottiera «infedele» che rovinerebbe il paladino Rinaldo se i commilitoni di questo non lo tirassero fuori a forza dall’insana passione per lei.

In tutta apparente «semplicità» procede per visioni abbacinanti, che prendono corpo e gesto nei costumi molto belli di Giovanna Buzzi e nelle scenografie davvero stratosferiche di Margherita Palli: il primo alzarsi di sipario, su un affollamento di pupi e paladini dai mantelli del color del sangue, non è solo un bel coup de théâtre, ma un vero colpo al cuore, che immediatamente mette in gioco la cultura e gli stereotipi di ogni spettatore. Lo stesso si ripete nelle selve fuggitive, e soprattutto negli inferi dove l’eroina vive e prospera: tra esseri mostruosi usciti da incubi fiamminghi, che costituiscono lo specchio deformato della dolce vita che si gode i piaceri: della carne, della musica e della danza.

Proprio le danze hanno modo di allargare il respiro che solitamente viene loro tolto (grazie a Michele Abbondanza e ad Antonella Bertoni), riuscendo nel delicato equilibrio di fornirci una grammatica di gesti conosciuta e significativa,senza cadere mai nella tentazione stucchevole del «balletto classico».

Insomma la «favola» rossiniana rende partecipi (e commuove e diverte), scoprendo nello stesso tempo le radici storiche e perfino mitologiche di quel conflitto per la supremazia su Sionne che da settimane torna a insanguinare con violenza ben lontana dall’arte l’attualità politica e umanitaria del pianeta. E curiosamente anche Aureliano in Palmira ci riporta a quelle lande e a quei temi.

Con l’imperatore del titolo e l’imperialismo della Roma antica messi in crisi dalla resistenza di Zenobia regina della città di Palmira. Nonostante gli svarioni drammaturgici, il libretto di Felice Romani ha una sapienza scrittoria fantastica: ci porta di continuo dentro e fuori dai confini lessicali e sintattici come da quelli geografici e storici. E offre a Mario Martone la possibilità di una regia capace di ricavare da quel lontano passato immagini e riflessioni ben vivi per l’oggi. Come la passione che la straordinaria fisicità di Jessica Pratt conferisce alla regina mediorientale, nel suo legame erotico e politico con il persiano Arsace, ruolo per mezzosoprano affidato a Lena Belkina, realizzando un’iconografia lesbica senza nessun prurito.

E come da questo, Aureliano (con la compatta fisicità di Michael Spyres) arrivi a proporre contro l’infelicità di tutti e tre, un triangolo senza confini di pertinenza. E un sapore brechtiano assume la presenza in palcoscenico del fortepiano di Lucy Yates, che entra con gusto nella rappresentazione. Oltre che sui cantanti, traspare il lavoro fatto da Martone su testo e drammaturgia: usa con sapienza le scenografie povere di Sergio Tramonti e il cui effetto si incrocia e si moltiplica con le bellissime luci di Pasquale Mari. E in quella dignità povera che affronta ogni rischio, di nuovo non è difficile che il pensiero corra alla tragedia in corso in Palestina. Martone fa di più, e chiude lo spettacolo con una citazione da Orientalismo di Edward Said. Qualcuno può non gradire, ma anche un’opera di duecento anni si fa pensiero.