Luigi Noto aveva 49 anni, lavorava nello stabilimento Fca Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco. Era addetto alla manutenzione nel reparto stampaggio, aveva smesso di lavorare domenica mattina e aveva riattaccato lo stesso giorno alle 22 per il turno di notte, alle sei di lunedì avrebbe dovuto smontare e tornarsene a casa, ma alle cinque si è sentito male: ha avuto appena il tempo di dire «non respiro» e si è accasciato. Morto per infarto. Lo hanno portato nella clinica Villa dei Fiori, ma secondo qualche collega era già deceduto in fabbrica. La Fiom ha chiesto all’azienda un incontro per conoscere quali siano i dispositivi medicali presenti nei reparti e quali siano i tempi di intervento in caso di incidente o malore. Ma intanto i colleghi raccontano che l’infermeria il sabato e la domenica di solito è chiusa e anche quando è aperta il personale non è all’altezza di emergenze serie. In quanto al defribillatore, pare che per Noto non sia stato utilizzato.

La denuncia

Il Comitato cassintegrati e licenziati Fiat ieri ha presentato denuncia al tribunale di Nola: «Ricordiamo che un altro incidente mortale avvenne meno di un anno fa nello stesso stabilimento e coinvolse l’operaio Vincenzo Esposito Mocerino, che morì dissanguato per la quasi amputazione di un braccio in conseguenza di una caduta. L’operaio morì per mancanza di soccorsi. Sull’accaduto sono ancora in corso indagini e ci sono diversi indagati ma, al momento, non si sa a che punto sono giunte. Noi riteniamo che i ritmi di lavoro assurdi, la mancanza di riposi razionali tra un turno e un altro, per gli operai coinvolti siano un enorme motivo di stress fisico e mentali».

Chiedono che si indaghi e stamattina sono davanti ai cancelli per protestare contro l’ennesimo sabato di straordinario quando ci sono operai in cassa integrazione dal 2008. «Sono stato responsabile della sicurezza al Vico per oltre dieci anni – racconta Mimmo Mignano -, il Lingotto ha sempre coperto tutte le magagne all’interno della fabbrica, ogni incedente o è colpa dell’operaio o è successo fuori. I carabinieri che dovrebbero indagare si preoccupano invece di manganellarci se protestiamo».

Domenico Loffredo lavora nello stampaggio, Luigi era un suo amico: «Lui era alla manutenzione impianti, io a quella degli stampi. Era un ragazzo simpatico, un piacere farci due chiacchiere, non abbiamo mai saputo che avesse problemi di salute o di cuore». Nel reparto si lavora su tre turni, mattina, pomeriggio e notte dal lunedì al venerdì, la settimana comincia domenica alle 22. L’organizzazione prevede un ciclo fatto di due giorni al primo turno, due al secondo, due al terzo, smonto e riposo. Naturalmente può capitare che l’azienda comandi i sabato lavorativi o ti convochi se c’è un’emergenza sulle macchine. «Alla manutenzione impianti lo stress è molto alto – prosegue Loffredo – perché un guasto può bloccare tutto il ciclo produttivo, i capi ti stanno addosso, devi fare presto». Nel segmento B si producono i pezzi da montare nel settore A, c’è bisogno di fare un turno in più per fornire il materiale che serve sulle linee, dove invece si lavora su due turni. Le macchine fanno una quantità stabilita di battute, ogni battuta un pezzo realizzato. Se ci sono picchi produttivi, capita che il processo venga spinto oltre la velocità indicata per la macchina: chi raccoglie i pezzi per dividerli nei contenitori deve muoversi a ritmi più alti, la testa e il fisico spremuti; ma si spreme anche la macchina e, spesso, si deve ricorrere alla manutenzione.

«E’ un settore impegnativo, sei a contatto con presse alte come un palazzo di due piani. I capi ti controllano, sei sempre sotto pressione. Il risultato è che per fare in fretta non rispetti tutti gli standard di sicurezza, nonostante il rischio di venire tagliati o rimanere schiacciati sia molto alto». Ad esempio può capitare che lo stampo non venga tolto dalla macchina ma riparato in sede: «Si può fare – prosegue – ma a patto di rispettare delle procedure, ad esempio inserire quattro puntelli nella pressa per avere il tempo di scansarsi se si dovesse chiudere. Se ti mettono fretta, di puntelli ne sistemi uno o due e poi preghi che non succeda niente, perché certo non bastano per non farti schiacciare un arto». Nel settore B c’è un’altissima rotazione di personale da quando sono cominciati i contratti di solidarietà, c’è chi lavora 17 giorni al mese e chi solo due perché magari ha la tessera del sindacato che non piace all’azienda: «Così non riesci a entrare nel ritmo, è più complicato concentrarti e, di conseguenza, più facile farti male».

Il settore A

Nel settore A invece non ci sono i contratti di solidarietà, chi è alle linee di montaggio lavora tutti i giorni dal 2010: sono circa di 2.300 su 4.764 dipendenti. Circa 1.800 sono in solidarietà; 296 invece sono quelli in cassa integrazione perenne nel reparto logistico di Nola (di questi solo 70 sono tornati a lavorare). Ai 1.056 dell’Ex Ergom era stato promesso che sarebbero stati assorbiti al Vico, ma solo 200 sono stati salvati, per gli altri si va avanti in cig straordinaria. Così c’è chi sta fuori e chi lavora veloce come un centometrista. Ogni turno produce 420 Panda, una al minuto. Nelle postazioni contrassegnate dal bollino verde l’ergonometria è massima, uno standard raggiunto applicando il modello World class manufactoring: tutti i componenti arrivano in postazione, nessun movimento è richiesto all’operaio oltre il gesto indicato dalla sua funzione. Il risultato dell’automazione è che la Fca incamera il massimo del profitto dall’operaio, che però satura quasi al 100% il suo tempo di lavoro: in ogni minuto lavorato neppure un secondo viene sprecato, devi correre appresso alle macchine. C’è persino chi lavora su una piattaforma che scorre, la testa ti gira e così vai avanti con il nimesulide in tasca.

Non ti fermi mai, la pausa pranzo di mezzora non c’è più da quando Marchionne l’ha spostata a fine turno: sei al tuo posto per 7 ore e mezza filate, ai solo tre interruzioni collettive da 10 minuti. Che fai? Ci sono 40 sedie per 1.300 operai a turno, sedersi è impossibile. Puoi comprare una bottiglietta d’acqua o andare in bagno ma il capannone è enorme e, se sei lontano dai box ristoro e dai wc alla turca, magari non ci riesci. Arrivi a contare persino quanti secondi ci vogliono per asciugare le mani con l’asciugatore elettronico. Il risultato è che esci dall’auto la mattina alle 5.30 per montare alle sei e ti risiedi solo alle 13.40, quando ti ritrovi di nuovo nella tua vettura.

Sul lavoro il tempo è frenetico. Lo spazio è diviso in domini: ogni dominio ha sei operai e un team leader, se qualcosa non funzione devi premere un bottone, da ogni sezione parte una canzone diversa per ogni team leader, un brano pop che esplode a tutto volume per attirare la sua attenzione. Se il problema è ricorrente la canzone esplode a ripetizione per l’intero turno, mentre succede lo stesso negli altri domini. Il capannone diventa un circo dove si alimenta l’angoscia collettiva. «Alla fine – raccontano – quella canzone la odi». Ogni volta che esplodono le note è un colpo: il salario (quello base è di circa 1.200 euro) varia in base al punteggio raggiunto nella scala del Wcm, se non raggiungi l’obiettivo porti a casa meno soldi. Se ti infortuni, ti rimettono in sesto come possono in infermeria, ti portano in clinica e alla fine risulta che ti sei fatto male a casa: nessuna denuncia all’Inps però per un po’ finisci su una postazione di lavoro più comoda. Se ti lamenti che a terra è bagnato e puoi scivolare la risposta è: “Se rompi le scatole prendiamo un altro”».

Straordinario e operai fuori

Prima della ristrutturazione si producevano 330 Alfa 147 a tre e cinque porte più il Gt coupé a turno. Con le attuali strutture si potrebbero realizzare 1.050 vetture su tre turni da 350. Ma la direzione preferisce far fare lo straordinario e tenere gli operai fuori. Il motivo ufficiale è che non sono bravi come quelli che fanno la Panda nel settore A: gente che produceva le Alfa, non sarebbe in grado di avvitare i bulloni di una utilitaria, però secondo Fca può andare a Melfi a produrre la Renegade o la 500X. «Ma se si prevedono altri sabato a lavoro – ragiona Antonio Di Luca, operaio Fiom – allora non è più un dato eccezionale ma strutturale, quindi l’azienda dovrebbe introdurre il terzo turno. Così si distribuirebbe in modo più equo sia il ritmo di lavoro che il salario».