Oltre dieci anni fa Dubravka Ugrešic apriva il suo Vietato leggere (Nottetempo) descrivendo l’inaugurazione della Fiera del libro di Londra, e la madrina cui era stato dato il compito di aprire quella vetrina libraria, Joan Collins, celebre attrice anglo-americana, «neobattezzata scrittrice». Ugrešic, che era lì presente, descrive il codazzo di telecamere che avevano seguito il «broncio lezioso» di Jackie Collins, il completino Chanel rosa dentro cui si muoveva, l’altrettanto rosa cappellino e l’erotisimo in filigrana con cui si aggirava tra gli stand degli editori, «esattamente come se si fosse trattato di scegliere biancheria intima femminile da Victoria’s Secret».

La descrizione che ne è derivata è magnetica e al tempo stesso esilarante: la scrittrice croata non riusciva a staccare gli occhi dalla parata e, disgustata, si mise al seguito dei curiosi. Poi, in conclusione di tutto, con una sorta di divertito e però profondo sconforto, si chiese: «Che cosa c’entra tutto questo con la letteratura?». Niente, si rispose da sola.

Questa stessa domanda torna, in qualche modo, in tutta l’opera di Dubravka Ugrešic, scrittrice imprescindibile del nostro tempo, di cui ora Nottetetempo pubblica (nella traduzione di Olja P. Arsic e Silvia Minetti, pp. 325, euro 18.50) Europa in seppia, terzo capitolo – dopo Vietato leggere (2005) e Cultura karaoke (2014) – di un lucidissimo commentario al divenire del nostro mondo, testimonianza di un saggismo narrativo (o di una narrativa con intarsi saggistici) che oggi ha pochi eguali e che negli anni ha spaziato da Monica Lewinsky a David Hockney al karoke alla metamorfosi del socialismo in souvenir buoni per nostalgici e sfiniti fruitori di youtube, alle strategie di fidelizzazione di Starbucks, alla marginalità ridicola degli scrittori nel panorama contemporaneo.

Molto lontane da quelle tentazioni sociologiche che una lettura superficiale potrebbe sospettare, le sue pagine riflettono una domanda molto chiara: cosa se ne fa la letteratura di tutto questo? C’è un posto in cui gli scrittori possono sedersi? Qualcuno ci ha riservato delle sedie o ci toccherà andare all’assalto con i gomiti pronti a dar battaglia?

È evidente che il modernismo di Thomas S. Eliot è tramontato da un pezzo. Sulle rovine di quello che siamo, e di quel che siamo stati, non ci si puntella più. Piuttosto ci si chiede se cestinarle, quelle rovine, dentro la raccolta differenziata, accanto al cassonetto bianco della Letteratura, oppure se interrogarle, se farle finire dentro lo stomaco dei libri che si scrivono. Se provare cioè a impastarle per poi tenersele sullo stomaco indigeste, ma senza rifiutarle.

Indimenticabile, da questo punto di vista, è l’incipit del Museo della resa incondizionata, la descrizione della vetrina in cui sono conservati, allo zoo di Berlino, gli oggetti rinvenuti nello stomaco dell’elefante marino Roland. Trascrivo l’elenco per intero: «un accendino di colore rosa, quattro bastoncini da gelato (di legno), una spilla in metallo a forma di barboncino, un apribottiglie, un braccialetto da donna (probabilmente d’argento), un fermaglio per capelli, una matita di legno, una pistola ad acqua di plastica per bambini, un coltello di plastica, un paio di occhiali da sole, una catenina, una molla (piccolina), un cerchio in gomma, un paracadute (giocattolo), una catena di ferro da quaranta centimetri circa, quattro chiodi (grandi), un’automobilina di plastica verde, un pettine di metallo, un distintivo di plastica, una bambolina, una lattina di birra (Pilsner, trentatré centilitri), una scatola di fiammiferi, una pantofolina da bambino, una bussola, una piccola chiave d’automobile, quattro monetine, un coltello con l’impugnatura in legno, un succhiotto finto, un mazzo di chiavi (cinque pezzi), un lucchetto, un astuccio di plastica con aghi e fili».

La letteratura è lo stomaco di Roland, sembra ribadire Dubravka Ugrešic nei ventotto testi che compongono Europa in seppia. È una sorta, cioè, di museo involontario in cui però niente conta più nulla. Lì dentro il passato smette di essere tale. L’ex Jugoslavia, per esempio, diventa niente di più che un polmone d’acciaio posticcio fornito dal mercato, dispensa nostalgia tra i bronchi a pagamento, concede momenti di felicità surrogata, svuotata di qualsiasi valenza politica: «La jugonostalgia ha perso la sua carica sovversiva (…), è diventata un supermercato mentale, un elenco di simboli morti, un semplice promemoria privo di immaginazione emozionale». Le rovine sopravvivono se si trova qualcuno a cui venderle, come raccontava Günter Grass in È una lunga storia, diventano utili se producono utile, e per farlo hanno bisogno del marchio di garanzia «Originale del Muro di Berlino», e la data scritta accanto. Siamo in un tempo post-utopistico, commenta l’autrice di Baba Jaga ha fatto l’uovo, e «i concetti svolazzano intorno a noi come vecchie bandiere smangiucchiate dalle tarme». È così che finisce la memoria: un bolo come un altro che scende giù lungo l’esofago del tempo grazie alla peristalsi del turismo, ovvero la storia e la geografia devitalizzate perché non facciano più male. «Per molte zone travagliate – scrive con il consueto sarcasmo Dubravka Ugrešic – il turismo politico potrebbe rappresentare una salvifica fonte di guadagno. I Balcani hanno grandi potenzialità. La pulizia etnica e i lager potrebbero in un prossimo futuro essere d’ispirazione per l’apertura di parchi tematici. (…)

L’isola di Goli Otok, il gulag jugoslavo, grazie al suo mite clima mediterraneo e alla sua accessibilità ha un potenziale turistico molto più elevato dei lager siberiani».

Il resto, però, è tristezza, commenta altrove, svestendo il sarcasmo e guardando dritto in faccia un est stuprato dal capitalismo, dove i criminali della guerra nei Balcani diventano eroi nazionali, beneficiano di sostegni economici e glorificazioni. E gli altri, tra cui la stessa Ugrešic, sono costretti all’esilio, in un mondo propagandato come il migliore, dove i morti vengono liquefatti per occupare ancora meno posto che con le urne cinerarie, e dove i vivi portano avanti le proprie vite come un gioco, del tutto insensibili a chi dal gioco viene fatto fuori. «Il fatto che nel mondo vivano milioni di persone squalificate non ci disturba troppo, perché dovrebbe: non siamo noi a essere stati squalificati, ma loro».

Noi ci diamo da fare per sorridere, mandiamo messaggi e facciamo yoga, andiamo dentro i parchi a fare jogging in assetto familiare, con fisiognomica pubblicitaria, facendo finta di essere felici, anche se è evidente che non è così: «Si dedicano allo jogging mattutino con lo stesso atteggiamento con cui si laverebbero i denti. Nessuno, in realtà, è più tanto allegro».

Dubravka Ugrešic si aggira in mezzo a queste macerie con uno sguardo che però non è mai sconfitto, perché in fondo il suo stile è un impasto inconfondibile di diverse gradazioni di stupore. Anche di fronte al più sconsolante degli orizzonti culturali e politici, infatti, in lei prevale l’occhio spalancato di chi si fa prendere in contropiede dalla vita e impugna la letteratura per provare a capire e replicare. La letteratura, certo, ha un posto sempre più residuale, gli scrittori sono merce buona per manifestazioni culturali, animali con cui farsi fotografare nello zoo dei festival di letteratura, ma scrivere è infilare tutto questo dentro lo stomaco di un libro, e spedirlo nel futuro.

«Che cosa c’entra tutto questo con la letteratura? Praticamente niente». Però si può ancora pensare di mandare qualcosa a chi ancora non c’è, perché l’idea che tutto sia morto è soltanto una profezia buona per far consumare ora. L’uomo, sembra dire Ugrešic, è ancora quel grumo di stupore che fa fare alle persone delle cose molto semplici, come provare a stare insieme, farsi domande, ballare al ritmo di una musica qualsiasi: «Mi sembra di avere messo a fuoco il messaggio, quello che io, se qualcuno me lo chiedesse, lancerei nel futuro, in qualche museo del futuro. Il contenuto del messaggio sarebbe il ballo, (…) immagini di persone normali che ballano proiettate in cielo come stelle».