Suppongo che molti abbiano notato con qualche sorpresa l’ostentata indifferenza con cui in questi giorni la «grande stampa» ha registrato gli ultimi massicci episodi di trasformismo parlamentare, successivi al prudente cambio di casacca dei «responsabili» di Sel. Alludo alla confluenza nel partito del presidente del Consiglio di buona parte dei gruppi di Scelta Civica e al più o meno esplicito trasloco in maggioranza di parlamentari di Gal, di forzisti di rito verdiniano e di fuoriusciti del M5S.

Il tutto a uso e consumo del governo Renzi, messo così in condizione di neutralizzare gli eventuali contraccolpi della rottura del patto del Nazareno.

La nonchalance riservata a tali vicende sembra suggerire che si tratti di banalità nella norma. Vale allora la pena di chiarire subito un punto essenziale. Non si tratta soltanto di un fenomeno squallido sul piano morale («etico-politico»). Nella misura in cui interferisce pesantemente nella funzione di rappresentanza che la Costituzione assegna al parlamento della Repubblica (notava Michele Prospero qualche giorno fa sul manifesto che in conseguenza della migrazione ad altri gruppi di quasi duecento parlamentari la composizione del parlamento italiano oggi è profondamente diversa da quella prodotta dal voto popolare di due anni fa), il trasformismo è anche un indice della gravità della crisi democratica in atto nel paese. Parlarne seriamente – persino drammaticamente – non è quindi pruderie. Significa, al contrario, abbozzare una inderogabile analisi politico-storica.

Cominciamo proprio da qui. Nei Quaderni del carcere Gramsci – non propriamente un moralista nel senso spregiativo del termine – insiste più volte sulla rilevanza del trasformismo nel processo risorgimentale e nella dinamica politica della nuova Italia (nei primi cinquant’anni di vita dello Stato unitario). Attraverso il trasformismo – scrive – i «moderati» guidati da Cavour «diressero» i democratici di Mazzini e Garibaldi, imprimendo al Risorgimento una cifra oligarchica, conservatrice e antipopolare. Anche dopo il 1870 la parte moderata continuò a dirigere il Partito d’Azione mediante il trasformismo, che per questo Gramsci considera «un aspetto della funzione di dominio», oltre che «una forma della rivoluzione passiva». In sostanza, la classe dirigente italiana venne elaborata «nei quadri fissati dai moderati» anche per mezzo dell’«assorbimento degli elementi attivi» provenienti dalle classi nemiche. Le quali furono così «decapitate» e per lungo tempo «annichilite».

Al di là dell’aspetto morale, Gramsci pone dunque un forte accento sul carattere politico del fenomeno trasformistico. Nella sua analisi colpisce in particolare un elemento di straordinaria attualità, in forza del quale essa sembra offrire la fotografia di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, tra «stabilizzatori», «responsabili» e altre varianti della progenie scilipotesca. Nell’analizzare il trasformismo, i Quaderni sottolineano la specifica responsabilità degli esecutivi. Affermano che i movimenti trasformistici sono da imputarsi in larga misura al governo in carica, il quale opera «come un “partito”» ponendosi al di sopra dei partiti esistenti per disgregarli, precisamente allo scopo di costituire una forza di «senza partito» posti ai suoi ordini.

Ottant’anni fa Gramsci sembra insomma raccontare la cronaca di queste settimane, il trionfo – chi sa quanto duraturo – di Renzi, il sorgere della sua «dittatura». Con la loro opera di corruzione e assorbimento di interi gruppi parlamentari, i governi Depretis, Crispi e Giolitti provocarono indubbiamente la «scarsità di uomini di Stato, di governo» e la «miseria della vita parlamentare». Ma la loro azione di comando indubbiamente se ne avvantaggiò, essendosi sbarazzata di ostacoli importuni.

Oggi questo scenario si ripete tal quale, sicché è sufficiente aggiornare l’analisi di Gramsci con il riferimento ad altri episodi e figure. Chiarendo innanzi tutto che il trasformismo non è più soltanto interpartitico ma anche infrapartitico (essendosi i partiti stessi parlamentarizzati).

Quanto sta avvenendo proprio in queste settimane nel Pd ne è un esempio plastico. Il partito di Renzi non è soltanto una forza attrattiva per fenomeni trasformistici classici (di affluenza di forze parlamentari dall’esterno). È anche sede di dinamiche trasformistiche interne, influenti sulla dialettica tra le sue componenti.

In quest’ottica va letto il confluire (conclamato o surrettizio) delle diverse anime dell’opposizione «di sinistra» nella maggioranza renziana, inaugurato mesi addietro dalla cooptazione in ruoli dirigenti di molti ex «giovani turchi» e bersaniani, e coronato, da ultimo, dalla sostanziale pacificazione interna successiva all’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

È dunque un fatto: anche ai giorni nostri il trasformismo si conferma efficiente strumento di costruzione di maggioranze che immunizzano i governi dalla dialettica parlamentare, via via degradata a «potere di veto dei partitini», a «minaccia per la governabilità», a «sabotaggio a opera di frenatori».

Come in passato, il trasformismo è uno dei principali mezzi di governo e di controllo delle aule parlamentari. E anche da questo punto di vista il democratico Renzi appare in linea col peggio, replicando il diretto precedente dell’ultimo governo Berlusconi, tenuto in vita dal manipolo dei suoi «responsabili».

Ma – riconosciuta, anche grazie a Gramsci, la fondamentale politicità del fenomeno trasformistico – siamo soltanto a metà del discorso. Resta da chiarire una parte altrettanto rilevante, benché forse meno scontata. Come dicevo all’inizio, il problema è in che termini si parla del trasformismo e delle patologie consimili, sempre che se ne parli.

Questo problema ne coinvolge a sua volta un altro, più generale e di fondo. Dovremmo chiederci che cosa sia oggi la «questione morale» e in che misura essa differisca dai temi politici ai quali abitualmente si presta attenzione. Su questi temi avremo modo di soffermarci in un prossimo intervento.