Una delle maggiori imprese letterarie del recente passato è la trilogia che si distende fra Nel regno oscuro e Storia umana e inumana (Bompiani 2008-2013). Lì Giorgio Pressburger deduce dalla tragicità del secolo che gli sta alle spalle (e che egli ha largamente attraversato da nomade cosmopolita, in sostanza da apolide) una vera e propria Opera/Mondo dove il soggetto è una proiezione autobiografica ma soprattutto è l’interlocutore di una vicenda immane nella sua coralità centrifuga, qualcosa che allude al viaggio della Commedia ma insieme agli stasimi e alla fissità minerale di una Tragedia nel cui centro pulsino, alla stregua di luci collassate, i siti più indicibili del secolo medesimo (Auschwitz, Hiroshima, le steppe, le città polverizzate, le memorie annientate dei martiri e più semplicemente degli esseri umani, piccoli e grandi, cui è toccato farne esperienza).

Quanto alla trilogia, non si trattava di romanzi se non per la loro polifonia, dove nessun livello dell’espressione letteraria era assente, fra istanza cognitiva o riflessiva e impulsi invece poetici o inventivi, ma piuttosto di un grande oratorio in cui si susseguivano, per complicità o a contrasto, le voci imprigionate dentro il secolo nel suo moto imperterrito come nella sua paradossale fissità di spreco e di strage.

Quello era, insomma, il panottico di un cosmo più volte esploso per tornare puntualmente all’anonimato e alla inerzia delle particelle elementari, cioè le voci che ne riferivano chiedendo nel frattempo, e invano per lo più, un dialogo, un senso ulteriore al proprio stato di impotenza e di desolazione davanti alla Storia.

L’impresa di Pressburger, uno scrittore che si era rivelato per la nettezza del segno e la vitrea precisione della testimonianza, somigliava alla caduta di una meteorite proprio perché dai suoi racconti lunghi e dichiaratamente autobiografici (Storie dell’Ottavo Distretto, 1986, La neve e la colpa, 1998, L’orologio di Monaco, 2003) egli derivava infine, per straniamento ed espansione allegorica, la coralità di Storia umana e inumana.

Ora, per un moto che si immagina circolare, Pressburger torna alla sua matrice, la dura elegia del ricordo, con Racconti triestini (Marsilio, pp. 139, euro 16.50). Se Budapest era stata la prima couche, il cerchio familiare e l’iniziazione alla vita, Trieste è per lui un approdo dopo la peripezia che lo ha visto bambino scampare ai carri della deportazione e ragazzo sfuggire al tallone staliniano.

Non meno di Budapest, Trieste è un crocevia fra est e ovest, un diorama di etnie e di lingue, un misto impensabile di saggezza levantina (tanto metabolizzata da sembrare accidia) e di asburgico, borghesissimo, decoro i cui numi tutelari, entrambi onorati da Pressburger, sono il Saba della «calda vita» e uno Svevo il cui sorriso sa sempre di saggezza penetrante, eversiva.

Scrive l’autore nella premessa: «Le storie che ho raccolto qui provengono da racconti di conoscenti, pettegolezzi da caffè e tristi o ridanciane cronache cittadine. Come tali potrebbero essere anche vere. (…) Verità e realtà: un binomio difficile, ma con un po’ di accortezza se ne può disinnescare la portata esplosiva».

Che cosa, alla lettera, esplode in questi sette racconti lunghi il cui primo denominatore è una topografia così letterariamente frequentata, dal Caffè Tommaseo a via Brunner, da Opicina al Borgo Teresiano, da risultare leggendaria? Una voce a un certo punto esclama che l’uomo vive nell’oscurità ed è per questo che è eroico. Può essere una chiave ed è senz’altro una nota profonda della ispirazione di Pressburger, quella che residua vibrando nel mondo della insensatezza o dell’oblio.

Qui ogni essere, senza volerlo né saperlo, chiede di acquisire o di lasciare una qualche eredità, esige mutamente di accedere o di rimanere in una forma dove riconoscersi o appagarsi, ed è quanto il connubio micidiale di storia e natura nega normalmente alla stragrande maggioranza degli esseri umani, cioè di riuscire a essere davvero sé stessi e perciò di lasciare qualcosa, un segno che denoti, dopo tutto, la compiutezza della vita umana.

Ogni essere è perciò potenzialmente, senza esserlo necessariamente, un artista, il creatore o l’erede della sua stessa forma al cospetto di un mondo che la disfa o non la riconosce. Un testamento che fa ricca all’improvviso un’umile domestica, l’olocausto privato di una anziana musicista, un maturo e indeciso Edipo, l’ambigua silhouette di una donna un tempo bellissima o quella di una passante baudelairiana, due storie di maternità e paternità irredente: la scrittura, come al solito, è piana, modulata senza alcuna forzatura e tuttavia mai perduta nel puro ritmo della affabulazione, lo sguardo è limpido, equanime, mantenuto alla giusta distanza.

Nell’ultima pagina càpita allo scrittore di menzionare Il cappotto di Gogol’ ma non è tanto l’evocazione di un modello quanto la rivendicazione di una metrica, la distanza ideale fra la realtà percepita e il soggetto che la sta raccontando. Solo in quello spazio necessario, sembra suggerire Pressburger, è possibile cogliere la portata mutamente esplosiva di ogni minima esistenza e, pertanto, l’eroismo che si cela nell’oscurità in cui vivono gli uomini comuni.

Perciò, insieme coi Racconti triestini, andrebbe visto il bellissimo film documentario di Mauro Caputo L’orologio di Monaco (Luce-Cinecittà, dvd, euro 9.99), un titolo che non allude al famoso carillon della Torre Civica ma al dono che una anziana zia fece ai suoi nipoti come pegno di memoria e d’amore.

La voce dello scrittore accompagna il racconto mentre sta muovendosi nei luoghi più suoi, la libreria antiquaria di Umberto Saba, lo stupendo cimitero ebraico, la Risiera di San Sabba che Caputo riprende a colori glaciali. La voce, una voce calda, infinitamente gentile, va e viene tra il qui e l’altrove, fra il passato e il presente, col ricordo di Budapest e la fuga affannosa con un sacco in spalla pieno di vasetti di marmellata, il solo cibo per la sopravvivenza tante volte ritornato in sogno come un incubo.

Ma il ricordo dell’io si intreccia alla trafila dei molti, dentro un mistero genealogico in cui compaiono nomi essenziali per la formazione dello scrittore, Karl Marx e specialmente Heinrich Heine, letto a dodici anni, il poeta dei Reisebilder e del Buch der Lieder, colui che disse, presago, che dove si bruciano i libri prima o poi si finisce col bruciare gli esseri umani.

Giorgio Pressburger non è tuttavia alla ricerca di una identità, parola temeraria e oggi di continuo bestemmiata, perché l’identità semmai è l’esperienza compiuta, è l’eredità di ognuno e di tutti, sempre compresente, è l’anonimo eroismo di cui dicono i Racconti triestini.

Giambattista Vico
Tutte le epoche torneranno e presto gli uomini «si richiuderanno di nuovo ciascuno nelle sue solitudini, com’era all’inizio degli inizi»

Seduto nella penombra dello studio, fra antiche carte, Pressburger confessa di aver sempre cercato, con fede e insieme scetticismo, una qualche certezza nei suoi avi e di non averla però mai trovata. Ammette, del resto, di non avere smesso di cercarla perché assillato da un pensiero di Giambattista Vico, secondo cui tutte le epoche torneranno e presto gli uomini «si richiuderanno di nuovo ciascuno nelle sue solitudini, com’era all’inizio degli inizi».

E dunque torneranno di nuovo a un’esistenza senza forma né destino, la stessa che Pressburger ha voluto interrogare, una volta per sempre, nell’Opera/Mondo culminata in Storia umana e inumana.