Che tristezza! E che desolazione! Non lascia proprio speranza questo atroce e dimesso Voci di famiglia che Harold Pinter scrisse nel 1980, giusto nel mezzo fra due testi che hanno per oggetto la memoria quali sono Tradimenti e Una specie di Alaska, come dire il progressivo regredire alle origini del disamore e un caso clinico che spinge a riconsiderare il rapporto fra passato e presente. Scritto come testo radiofonico in realtà, per la BBC, ma poi traslocato subito anche sulla scena, protagonista Peggy Ashcroft celebre anche per meriti cinematografici, Voci di famiglia non ha trovato mai un riconoscimento sulle nostre scene, a differenza degli altri due. Sarà forse per l’attacco a piedi giunti a quel caposaldo sociale che ancora è la famiglia. Ci pensa ora Dario Marconcini che a Buti, l’anno scorso, aveva già diretto un altro testo poco o nulla frequentato del drammaturgo inglese, ancora una volta incentrato sulla perdita di memoria, l’enigmatico Silenzio.

Qui le cose sono all’apparenza più facili. Non è difficile individuare due personaggi nelle figure che si presentano in scena sull’onda vagamente inquieta delle musiche di Angelo Badalamenti per David Lynch: siamo insomma dalle parti di Twin Peaks, in equilibrio ancora instabile fra deriva nel melodramma e virata horror. Una madre e un figlio. Sono Giovanna Daddi ed Emanuele Carucci Viterbi, bravissimi. Vanno a sedersi fra gli arredi che hanno liberato dai teli bianchi che li ricoprivano – ed è anche questo un gesto pieno di significato, come se tornassero ad abitare luoghi da tempo abbandonati. Lui molto colorato e irrequieto, su un divanetto in primo piano illuminato da una luce rossa che ricorda una camera oscura, anche qui c’è in gioco in fondo un tempo di esposizione. Lei più dietro, immobile accanto a un tavolino su cui incombe una nuda lampadina. Il capo un poco reclinato. Non si capisce a quale universo sia connessa. A separarli non è soltanto il velatino teso sul palco del teatro Francesco di Bartolo.

Voci di famiglia  0167+scritta

Io sto molto bene, comincia lui. È una lettera, si capisce. Racconta della sua nuova vita nella grande città, la casa dove ha trovato alloggio, l’accogliente stanza da bagno, gli strani abitanti di cui fatica a riconoscere possibili rapporti di parentela, visto che tutti si chiamano allo stesso modo. Il tono è allegro, disinvolto, anche quando qualcosa si smargina, e il racconto diventa più ambiguo, scompaginando la possibilità di una trama narrativa. Come quei drink e quelle pinte di birra e Campari soda, in cui ricade di continuo dopo averli negati un attimo prima.

Dove sei? Perché non scrivi mai? chiede lei. Ti ho scritto tre mesi fa per dirti che tuo padre era morto. Scandisce le parole con ritmica precisione, quasi scolpendole. Ma quelle sue parole non hanno un reale interlocutore, la commedia epistolare è fatta tutta di lettere forse mai scritte, certo mai ricevute. Ed è lì che si insedia il non detto, dove cioè il non detto può uscir fuori feroce proprio perché non avrà una risposta con cui confrontarsi. Ed è un alternarsi di preghiere e di maledizioni, di lusinghe e di malinconie, soprattutto dalla parte di lei. Più lineare è lo svelarsi progressivo della discesa di lui in un altro inferno domestico, mentre ne decanta la felicità, fra una lolita che divora pasticcini e l’uomo dalle inequivocabili inclinazioni sessuali che si dichiara profondamente religioso e poliziotto di professione.

C’è una terza voce, la voce del padre che solo alla fine esce fuori da quella sorta di zona d’ombra in cui si nasconde (è lo stesso Marconcini, il volto celato da un cappello di feltro). La bara di vetro da cui guarda il mondo e da cui può burlarsi della sua stessa morte. Un saluto dalle tenebre. In altri tempi sarebbe stato il deus ex machina tornato per rimettere insieme i pezzi della storia. Qui può soltanto farsi fantasma burlesco dello straziante sentimento di avere tante cose da dire, quando non c’è più il tempo di dirle. Quando la strada del ritorno è diventata intempestiva. Musicalmente siamo entrati nel territorio del lamento. Non per caso il finale sarà accompagnato dalla musica del Dido and Aeneas di Henry Purcell. Resta sospesa un’assenza che si muta in una domanda. Il significato della parola amore.