Si ritorna a parlare di quote nere per gli Springbok, la nazionale di rugby sudafricana. Un dibattito a cicli e ricicli ricorrenti che coinvolge quello altrettanto annoso sulle politiche razziali ed economiche, odierne e passate, e sui finanziamenti alle scuole pubbliche. Quanto di più inevitabile per la giovane democrazia arcobaleno che ancora fatica de facto a fare i conti con un passato decennale di separazione razziale forzata i cui retaggi restano ancora ben radicati. E delle cui problematiche non è scevro attualmente neanche il mondo dello sport e dell’educazione sportiva, come dimostra la querelle sui quotidiani e i social network tra sostenitori e contrari tra le file di fan del rugby, “colonnisti” e personalità di spicco della società sudafricana in reazione all’annunciata reintroduzione delle quote razziali.

Una decisione shock

A riaccendere il dibattito, lo scorso settembre, la scelta del coach degli Springbok Heyneke Meyer di schierare contro l’Australia, nell’ambito della Rugby Championship, il 24enne nero Teboho Oupa Mohoje e lasciare in panchina il flanker afrikaaner Schalk Burger, 31 anni e 71 presenze in nazionale. Una decisione shock per uno sport – il rugby sudafricano – notoriamente a tinte in maggioranza bianca, ma basata solo sul merito, sostengono tanto Meyer quanto Mohoje. Quest’ultimo con alle spalle solo 5 esordi nella squadra dei Cheetahs per la Super Rugby, è rimasto escluso nei recenti match contro l’Argentina, l’Australia e la Nuova Zelanda a favore di Juan Smith e Warren Whiteley, bianchi, portando alcuni dei media sudafricani a chiedersi se e quanto il colore delle sua pelle (e probabilmente le aspettative delle tifoserie) avessero influenzato le scelte del ct.

A pilotare in qualche modo la controversia mediatica, è stato il recente piano quinquennale – il Transformation Strategic Plan – ancora al vaglio, messo a punto dalla South African Rugby Union (Saru), il quale coinvolge tutti i livelli del rugby (dalle scuole, ai coach e agli arbitri) e prevede la reintroduzione delle cosiddette quote nere, vale a dire l’obbligo di portare la presenza di giocatori neri negli Springbok entro il 2019 al 45% nella Super Rugby e al 50% nel secondo livello di concorrenza Currie Cup e nel terzo livello Vodacom Cup. Un piano almeno «in linea di principio» già approvato dalla Federazione dei sindacati. I quali usano termini non proprio politically correct nell’apostrofare la classe dirigente della macchina rugby sudafricana, come si legge nel comunicato pubblicato sul sito della Congress of South African Trade Unions (Cosatu): «Cosatu è stato contattato da un certo numero di giocatori di rugby, sia bianchi che neri, preoccupati di come una vecchia conservatrice cricca boera controlli il rugby sudafricano. Cosatu sostiene la richiesta di quote nel rugby al fine di garantire che l’establishment nel rugby non continui a ostacolare una squadra più rappresentativa. Ci sono chiaramente molti giocatori neri incredibilmente di talento e qualificati che non vengono selezionati o lasciati a scaldare la panchina».

E gli strali non mancano neanche per DStv (Digital Satellite Television), la piattaforma satellitare che trasmette programmi di rugby sul canale sportivo SuperSport («complice nel sostenere il club degli old boys e continuare a ospitare commentatori che promuovono il vecchio status quo») e contro gli sponsor come SA Breweries e Absa. Mentre per mostrare come il sistema delle quote potrebbe funzionare i sindacati tirano in ballo l’ala degli Springbok, Bryan Habana, il quale «senza pressioni politiche non avrebbe potuto mostrare il suo straordinario talento. L’establishment bianco ha bisogno di volti neri per dare legittimità alla sua manipolazione della squadra e quei neri non devono negare che inizialmente sono entrati a far parte della squadra a causa della pressione politica sulla mafia boera del rugby».

A criticare il “passo da tartaruga” dell’integrazione razziale nel rugby a vent’anni dalla fine dell’apartheid era stato ad agosto scorso Desmond Tutu, che aveva evidenziato come il Sudafrica meriti una nazionale di rugby rappresentativa dell’«intero spettro dell’arcobaleno che ci definisce – non sulla base di quote o azioni positive o di facciata, ma in base al merito e per il nostro benessere a lungo termine come nazione. Come società abbiamo bisogno di capire che abbracciarsi l’un l’altro non è né un imperativo politico né una questione di correttezza politica». Parole per cui Tutu è stato tanto sostenuto quanto criticato.

Prima ancora di Tutu, già nel 2007 era stato il presidente della South African Rugby Union (Saru), Oregan Hoskins, a riconoscere pubblicamente come il ritmo del cambiamento fosse stato troppo lento. Uno studio governativo del 2013, il Pilot Evaluation Rugby, Cricket, Netball, Athletics, Football. A transformation status report, evidenzia come il target di rappresentatività demografica nell’ambito del rugby è, per quanto riguarda la sola popolazione nera, al di sotto del target prefissato del 50%: il numero di giocatori neri nel rugby dovrebbe aumentare di circa tre volte per raggiungere l’obiettivo. Eppure, continua il rapporto, «si tratta di una realtà strategica che l’84% di tutti gli Under 18 sudafricani siano neri (black african). Questo significa che solo il 16% degli Under-18 è o bianco, coloured o indiano. Ignorare questo fatto ha avuto implicazioni a lungo termine per lo sport».

Ma «fintanto che la disponibilità delle risorse e delle opportunità di partecipazione sono disuguali, una rappresentatività demografica in linea con la popolazione demografica nazionale e regionale del paese resterà un sogno sfuggente», si legge ancora nello studio. A tal proposito fattori determinanti risultano, tra gli altri, il numero di scuole e club coinvolti, di squadre, categorie, organizzazioni, numero di strutture disponibili e la partecipazione sportiva nelle scuole. «Il grande tasso di abbandono nella partecipazione alle attività sportive dopo la scuola a causa di condizioni socio-economiche sfavorevoli, di rapporti tra scuole e club non ottimali, e la carenza di opportunità di partecipazione complica ulteriormente la situazione generale», sostiene l’Eminent Persons Group (Epg) on Sport Transformation in South Africa – il gruppo di esperti che ha redatto il rapporto – evidenziando come il problema delle infrastrutture nelle scuole sia rimasto in gran parte irrisolto per 20 anni e a questo è strettamente legata la possibilità di promuovere una maggior partecipazione per coinvolgere una nuova generazione di sportivi. «Senza infrastrutture adeguate, squadre organizzate e partecipazione ottimale nelle strutture delle leghe, opportunità non sono possibili. La mancanza di servizi a livello scolastico sta raggiungendo proporzioni gravi».
Niente di nuovo su questo fronte. La maggior parte delle scuole di rugby, soprattutto di quelle migliori che fungono da vivai per gli Springbok, rimangono al di fuori della portata dei neri meno abbienti. Quei giocatori neri che sono riusciti ad emergere lo hanno fatto perché provenienti da famiglie in grado di sostenere finanziariamente la frequenza di una scuola di rugby.

Solo college per benestanti

Gli sforzi per portare il rugby nelle scuole delle township e nelle aree a maggioranza nere, sono rimasti appunto tali e più di natura verbale che concreta. Tra le scuole che vantano il maggior numero di giocatori tra le file degli Springbok ci sono la Paul Roos, Willie le Roux , Grey College (Bloem), Cobus Reinach, Bishops, Francois Louw, SACS, Percy Montgomery, Paarl Gimnasium, Handré Pollard, Paarl Boys’ High, Francois Malherbe, Kimberley Boys High, Dick Lockyear, Rondebosch Boys High, Hanyani Shimange e la Grey High School. Non proprio scuole di borgata, tutt’altro, college da quartieri benestanti.
Soweto, Khayelitsha o Gugulethu invece, per citare solo alcune delle township sudafricane, non dispongono di scuole di questa sorta né di strutture sportive adeguate.

Ma, ci chiediamo, può l’introduzione delle cosiddette quote razziali sui campi da gioco porre riparo a una situazione radicata in ben altri contesti? Le quote, nere o rosa che siano, non hanno mai fatto bene a nessuna società né hanno mai contribuito a dirimere alcuna controversia. Né possono tantomeno risolvere un problema di identità culturale e di status economico-sociale. Soprattutto in un Paese come il Sudafrica che ha sofferto il razzismo in tutte le sue espressioni e continua a misurarsi con forti dislivelli di accesso al benessere economico e sociale ancora vent’anni dopo la fine di un regime di segregazione razziale e culturale e di negazione della condivisione della ricchezza.

Il rugby, una volta simbolo del regime dell’apartheid (solo con Mandela è diventato simbolo di riconciliazione), resta storicamente parte dell’identità afrikaans, così come il calcio lo è per i neri. Di questa identità socio-culturale – di cui fa parte anche l’educazione sportiva – e degli interessi economici che vi ruotano attorno sono custodi e roccaforti tanto organizzazioni e leghe quanto il miope senso comune di tifoserie e sponsor.

Alla scuola e a programmi scolastici differenziati l’apartheid aveva affidato la sua sopravvivenza e sulla negazione al pari diritto allo studio aveva radicato il suo sistema. Vent’anni dopo l’inizio di una fase democratica per il Sudafrica, è triste notare che la questione scuola e diritto di accesso all’educazione di ogni sorta per tutti, compresa quindi anche quella sportiva, resti il perno di ogni dinamica sociale.

 

Nelson Mandela con Francois Pienaar, capitano degli Springbok, dopo la vittoria nella finale della Coppa del Mondo nel 1995
Nelson Mandela con Francois Pienaar, capitano degli Springbok, dopo la vittoria nella finale della Coppa del Mondo nel 1995

 

Una situazione ben lontana da quella vagheggiata dall’immagine che nel 1995 fece il giro del mondo di un Nelson Mandela con addosso la maglia degli Springbok che stringe la mano al capitano François Pienaar in onore alla vittoria nella finale dei mondiali di rugby contro la Nuova Zelanda. Una stretta di mano inviata alle nuove generazioni e una cartolina per le vecchie nell’auspicio di una riconciliazione nel nome di un’identità allargata. Un auspicio che resta tutt’ora lontano dalla realtà, tanto nelle dinamiche di integrazione economico-sociale quanto sui campi da gioco.