L’incoronazione di Poppea (1643) è un’opera avvolta da un’aura mitica. Non solo perché, in mezzo ai personaggi storici, ci sono anche alcune divinità della mitologia romana. Ma anche per il suo contenuto: il finissimo librettista Gian Francesco Busenello vi intreccia disinvoltamente turpi vicende di sesso e potere sullo sfondo della Roma imperiale. E soprattutto per la sua musica: a poco più di quarant’anni dalla nascita del nuovo genere teatrale del «recitar cantando», il compositore Claudio Monteverdi, vero iniziatore del genere con L’Orfeo (1607), ha lasciato quest’opera manoscritta in due partiture senza nome, con le linee di canto in larga parte sprovviste di armonie e strumentazione, tanto da far dubitare della sua complessiva paternità.

L’allestimento in scena al Teatro alla Scala in questi giorni è una ripresa di quello dello scorso anno, coproduzione con l’Opéra di Parigi, con regia, scene e luci di Bob Wilson. Servendosi di pochi moduli scenici ricorrenti, Wilson allarga e riduce continuamente gli spazi, creando un’atmosfera metafisica, che a tratti ricorda i quadri di De Chirico. Gli interpreti, imbellettati di bianco e fasciati dai voluminosi costumi neobarocchi di Jacques Reynaud, si muovono seguendo coreografie prossime alla pantomima e allo spettacolo di marionette.

Lo schema interpretativo è già noto da numerosi spettacoli precedenti di Wilson, e non solo quelli della sua trilogia monteverdiana (ha già allestito L’Orfeo e Il ritorno d’Ulisse in patria): «combinare un volto gelido con una voce suadente», secondo la ricetta insuperabile rivelatagli da Marlene Dietrich quando era giovane.

Dunque movimenti raffreddati e automatici a contrappuntare gli impeti della voce, stile statuario ed eleganza astratta a dare forma a storie di passioni e tormenti. Perciò Nerone e Poppea, che tanto si desiderano, non si toccano mai, persino nel celeberrimo e spurio duetto finale («Pur ti miro»), in cui le loro mani tese e macchinalmente gesticolanti sono separate da un vuoto incolmabile: «I cantanti mi hanno chiesto perché sono sempre così distanti. Il principio è come quello di un elastico, più le estremità si allontanano e più cresce la tensione». Dirige Rinaldo Alessandrini, uno specialista della musica antica.