Era successo già a settembre. Voci insistenti, riprese dalla stampa da ambienti della Farnesina, sull’imminente ritorno del (nuovo) ambasciatore italiano al Cairo. Ed era stato semplice evidenziare come non vi fosse alcuna novità sul piano delle indagini, che potesse giustificare una tale decisione.

Cosa sarebbe cambiato da allora che oggi potrebbe renderla più comprensibile? Dal punto di vista delle indagini, ciò che emerge dagli ultimi incontri tra le procure di Roma e del Cairo è che, secondo la magistratura egiziana, Abdallah, l’ex presidente del sindacato degli ambulanti della capitale egiziana avrebbe giocato il ruolo di «deux ex machina», attivando tra denunce e ricatti verso Giulio Regeni l’attenzione dei Servizi locali. Ricatti e attenzioni sarebbero arrivati quasi a ridosso del 25 gennaio, il giorno della sua scomparsa, quando potrebbero essere entrati in scena agenti di polizia che avrebbero agito in modo indipendente e autonomo fino ad arrivare al 3 febbraio, quando venne ritrovato il corpo di Giulio, irriconoscibile a causa delle torture subite.

Questa è peraltro un’ipotesi e non una conclusione d’indagine. Se a ciò si arrivasse, saremmo dalle parti di quella «verità di comodo» che più volte le istituzioni italiane hanno dichiarato di rifiutare.

Ma non siamo neanche a quel punto. Come ha precisato ieri pomeriggio la procura di Roma, «non è stata avuta notizia di alcuna imminente svolta».

E dunque, come già detto a settembre, oggi dobbiamo ribadire che rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo sarebbe un atto decisamente prematuro per il quale mancano i presupposti. Anzi, in questa fase – a indagini ancora in corso, compreso l’esame della documentazione fornita dalla procura egiziana il 6 e 7 dicembre – una decisione di questo genere (in realtà, anche il mero fatto di averla ventilata pubblicamente) rischierebbe di trasmettere al Cairo un messaggio sbagliato, facilmente interpretabile dalle autorità egiziane come una sorta di «pre-chiusura» dell’intera vicenda, come un premio, un riconoscimento, un attestato di buona condotta che esse al momento non hanno affatto mostrato di meritare.

Rimandare oggi o domani o dopodomani, in assenza di «alcuna imminente svolta», l’ambasciatore al Cairo potrebbe avere l’effetto di rallentare, piuttosto che di accelerare la ricerca della verità completa e non «di comodo» sull’arresto, la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni.

Il punto è che non la magistratura ma il governo italiano quel riconoscimento pare abbia voglia e fretta di darlo. Di chiudere in qualche modo, magari con una verità meno inverosimile di quella del «piatto d’argento» di Pasqua – costata la vita a cinque innocenti – ma chiudere questo periodo di relazioni complicate e tese con l’Egitto. Riprendere una collaborazione piena, tornando a chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani in quel paese.

Chiudere quel periodo senza una verità completa, ignorando che questa e solo questa potrebbe, tra l’altro, contribuire a incrinare il muro dell’impunità, ad aiutare la ricerca della verità in favore di centinaia e centinaia di vittime della tortura in Egitto. Come Aser Mohamed, 14 anni, arrestato il 12 gennaio e desaparecido per 34 giorni, durante i quali è stato seviziato con l’elettricità, bastonato, appeso al soffitto per costringerlo a confessare di aver preso parte, qualche giorno prima dell’arresto, all’attentato all’hotel Tre Piramidi del Cairo. Il 27 dicembre c’è la nuova udienza del processo in cui è imputato di reati di terrorismo.

È quella verità, non quella delle «mele marce», che dobbiamo continuare a pretendere. Per questo, sul sito di Amnesty International Italia prosegue la raccolta di firme. E per questo il 25 gennaio, primo anniversario della scomparsa di Giulio, promuoveremo una manifestazione nazionale a Roma. L’appuntamento è già fissato: alle 12.30 all’università La Sapienza.

* Portavoce Amnesty International Italia