L’indagine sulla negazione linguistica è, sempre, una indagine antropologica. Spiegare le prerogative e gli usi del segno «non» significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalle pulsioni psichiche, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali.

In una gocciolina di grammatica, diceva Wittgenstein, è racchiuso talvolta un intero trattato di filosofia. Ciò vale in primo luogo per quella nuvola cumuliforme che è la grammatica del «non»: da essa è possibile ricavare qualche notizia sul modo di stare al mondo del primate Homo sapiens, nonché una chiave per decifrare l’insieme di sentimenti e comportamenti che ci fanno parlare, a seconda delle inclinazioni, di disagio della civiltà o di attualità della rivoluzione.

Per dare il giusto risalto al ruolo che svolge il connettivo logico «non» nella forma di vita umana, propongo tre ipotesi concatenate sull’indole sociale, anzi pubblica, della nostra mente. A essere più precisi: tre ipotesi il cui tema è la singolare discontinuità tra il fondamento biologico di questa socialità e i suoi tortuosi sviluppi linguistici, segnati per l’appunto dal potere tellurico della negazione.

In origine era il «noi»

Prima ipotesi. L’animale umano intuisce i propositi e le emozioni dei suoi simili in virtù di una intersoggettività originaria, che precede la stessa costituzione dei soggetti individuali. Il «noi» si fa valere prima ancora che venga alla ribalta un «io» autocosciente. La relazione tra i membri della stessa specie è, innanzitutto, una relazione impersonale. Sull’esistenza di un ambito di esperienza pre-individuale hanno insistito pensatori come Vygotskij, Winnicott, Simondon.

Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio, ha riformulato la questione in modo particolarmente incisivo, incardinando l’anteriorità del «noi» rispetto all’«io» al funzionamento di un’area del cervello. Per sapere che qualcuno soffre o gode, cerca riparo o rogne, sta per aggredirci o baciarci, non abbiamo bisogno di proposizioni, né tanto meno di una barocca attribuzione di intenzioni alla mente altrui. Basta e avanza l’attivazione di un gruppo di neuroni situati nella parte ventrale del lobo frontale inferiore.

Scrive Gallese: «Il nostro gruppo ha scoperto nel cervello di scimmia l’esistenza di una popolazione di neuroni premotori che si attivavano non solo quando la scimmia eseguiva azioni finalizzate con la mano (per esempio afferrare un oggetto), ma anche quando osservava le stesse azioni eseguite da un altro individuo (uomo o scimmia che fosse). Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni mirror”». Di lì a poco, si è constatata la presenza di neuroni mirror anche nel cervello umano.

Allorché vediamo un manifestante sotto la sede della Goldman Sachs che compie una azione di cui parleranno i giornali, «nel nostro cervello sono reclutati a scaricare i medesimi neuroni che scaricherebbero se fossimo noi stessi, in prima persona, a compiere quell’azione». Comprendo il pianto dell’uomo che mi sta di fronte perché le mie stesse ghiandole lacrimali cominciano a innervarsi. Questo sentire all’unisono, o con-sentire, è chiamato da Gallese «simulazione incarnata».
I neuroni mirror sono il fondamento biologico della socialità della mente. A essi si deve la formazione di uno «spazio noi-centrico». Con una avvertenza: il pronome «noi» non indica, qui, una pluralità di «io» ben definiti, ma designa un insieme di relazioni pre-individuali, ossia «una forma paradossale di intersoggettività priva di soggetto».

Questo «non» è un uomo

Seconda ipotesi. Di questa intersoggettività preliminare, appannaggio di tutte le scimmie antropomorfe, il linguaggio non è affatto una potente cassa di risonanza. Anziché ornarlo di mille raffinatezze, le nostre enunciazioni retroagiscono distruttivamente sullo «spazio noi-centrico» istituito dai neuroni mirror. La padronanza della sintassi intralcia, e talvolta sospende, l’empatia neurofisiologica. La socialità della mente umana è modellata dall’intreccio, certo, ma anche dalla tensione duratura e dalla periodica divaricazione, tra «simulazione incarnata» e pensiero verbale.
Il linguaggio si distingue dai codici comunicativi basati su indizi e segnali, nonché dalle prestazioni cognitive taciturne (sensazioni, immagini psichiche ecc.), perché è in grado di negare qualsivoglia rappresentazione.

Anche l’evidenza percettiva che ci fa dire «questo è un uomo» dinanzi a un immigrato cessa di essere incontrovertibile allorché è soggetta all’opera del «non». Nel linguaggio mette radici il fallimento del reciproco riconoscimento tra conspecifici. Grammaticalmente impeccabile, dotato di senso, a portata di ogni bocca è l’enunciato «questo non è un uomo». Soltanto l’animale che parla ha la capacità di non riconoscere il suo simile.
Il vecchio ebreo è roso dalla fame e piange per l’umiliazione. L’ufficiale nazista sa che cosa prova il vecchio per mezzo della «simulazione incarnata». Ma è in grado di disattivare, almeno parzialmente, l’empatia generata dai neuroni mirror.

Per capire come avviene questa disattivazione, consideriamo un tipico requisito della paroletta «non». Il tratto caratteristico degli enunciati negativi («Ada non mi ama», «Giorgio non è andato a Roma») consiste nel riproporre con segno algebrico rovesciato il medesimo contenuto semantico del corrispondente enunciato affermativo. L’amore di Ada e il viaggio a Roma di Giorgio sono pur sempre nominati, e così conservati come significati, nel momento stesso in cui vengono verbalmente soppressi. Supponiamo che l’ufficiale nazista pensi: «le lacrime di questo vecchio ebreo non sono umane».

La sua proposizione conserva e sopprime a un tempo l’empatia neurofisiologica: la conserva, giacché si parla comunque delle lacrime di un Homo sapiens, non di un umidore qualsiasi; la sopprime, togliendo alle lacrime dell’ebreo quel carattere umano che, pure, era implicito nella loro designazione.
Soltanto grazie a questa attitudine ad abrogare ciò che nondimeno si ammette, il segno «non» può ledere un dispositivo biologico «sub-personale» qual è il con-sentire. La negazione non impedisce certo l’attivazione dei neuroni mirror, ma ne rende ambiguo il senso e reversibili gli effetti. Il pensiero verbale, dimostrando una notevole perizia nel mandare in rovina l’empatia neurale, costituisce la condizione di possibilità di ciò che Kant ha chiamato il «male radicale».

La sfera pubblica? Una cicatrice

Terza ipotesi. Il linguaggio non manca di procurare un antidoto al veleno che ha inoculato nell’innata socialità della mente. Oltre a sabotare in tutto o in parte l’empatia prodotta dai neuroni specchio, esso offre anche un rimedio (anzi, l’unico rimedio adeguato) ai danni così arrecati. Il sabotaggio iniziale può essere a sua volta sabotato.
La sfera pubblica, nicchia ecologica delle nostre azioni, è il risultato instabile di una lacerazione e di una sutura, della prima non meno che della seconda. Somiglia dunque a una cicatrice. Detto altrimenti: la sfera pubblica trae origine dalla negazione di una negazione. Se a qualche lettore ripugna il sapore dialettico di questa espressione, ne sono desolato, ma non so che farci. A scanso di equivoci, conviene aggiungere che la negazione della negazione non ripristina la primitiva sintonia pre-linguistica. Sempre di nuovo eluso o neutralizzato, il rischio del non-riconoscimento è però iscritto irreversibilmente nell’interazione sociale.

Lo «spazio noi-centrico» e la sfera pubblica sono i due modi, affini e però incommensurabili, in cui si manifesta la socialità della mente prima e dopo l’esperienza della negazione linguistica. Prima di questa esperienza, l’infallibile e impersonale con-sentire neurale; dopo, conflitti senza quartiere, patti, promesse, norme, istituzioni mai stabili, progetti collettivi dagli esiti imponderabili.
Neuroni mirror, negazione linguistica, intermittenza del reciproco riconoscimento: sono questi i fattori, coesistenti e però anche dissonanti, che definiscono la mente sociale della nostra specie. La loro dialettica destituisce di fondamento ogni teoria politica (per esempio, quella di Noam Chomsky) che opponga la naturale «creatività del linguaggio» all’iniquità e alla brama di sopraffazione degli apparati di potere storicamente determinati.

La fragilità dello «spazio noi-centrico», da imputare giustappunto alle perturbazioni che il linguaggio e la sua «creatività» portano con sé, deve costituire lo sfondo realistico di ogni movimento politico che miri a una drastica trasformazione dello stato di cose presente. Un grande e terribile filosofo della politica, Carl Schmitt, ha scritto con evidente sarcasmo: «Il radicalismo ostile allo Stato cresce in misura uguale alla fiducia nella bontà radicale della natura umana».

È venuto il tempo di smentire questa equazione maliziosa. Una analisi accurata della mente sociale permette di impiantare «il radicalismo ostile allo Stato» e ai rapporti di produzione capitalistici sulla pericolosità della natura umana (pericolosità alimentata dall’uso polivalente del «non»), anziché sulla sua immaginaria mitezza.
L’azione politica anticapitalistica e antistatale non ha alcun presupposto positivo da rivendicare. Si impegna invece a sperimentare nuovi e più efficaci modi di negare la negazione, di apporre il «non» davanti a «non uomo».