Un muro compatto, questo sì a prova di sisma, si erge dinanzi all’eventualità di replicare nelle zone della nuova emergenza il modello imposto a L’Aquila da Berlusconi e dal suo capo di stato maggiore Bertolaso nel 2009. All’epoca ne sarebbero bastati la metà, di quelli che ora ci spiegano quanto insensate furono le new town, per avere qualche chance in più di contrastarle. Ma al netto di qualche mugugno a mezza bocca degli amministratori locali, il comitato 3e32, il «popolo delle carriole» e questo giornale restarono piuttosto isolati nel sostenerlo.

Sette anni dopo è un piacere per le orecchie il suono dolce di parole come «comunità». O quello risoluto dello slogan «dove erano come erano», che s’impegna a riportare le case lì dove il terremoto le ha sradicate, segnando un prematuro e forse avventato irrigidimento al contrario.

Dall’attuale premier in giù, passando per giornali, singoli maître-à-penser e ordini professionali, il coro di No al modello abitativo delle new town è diventato unanime. E solenne come un gregoriano. Nessuno che, non dico rivendichi, ma almeno indichi nella risposta di B&B al dramma degli sfollati, all’angoscia che cresceva nel cratere aquilano man mano che passavano i mesi, un frutto della brama del fare e del fare in modo che la gente dalle tende e dagli albergi sulla costa venisse riallocata in case vere, con il riscaldamento acceso e lo spumantino in frigo, giusto all’apparire della prima neve. Nella speranza, perché negarlo, di un trasloco anche di voti, un altro effetto speciale che si è provato a moltiplicare con sorridenti inquadrature tv.

Ma cosa hanno fatto gli aquilani per meritarsi questa sequenza infinita di danni e di beffe? Prima erano ingombranti perché non accettavano le soluzioni escogitate per loro, ora che le hanno subite e digerite sono additati come un esempio sfortunato, se non come il male assoluto. Le new town, non loro, ma che fa. Gli si imporrà pure qualche riflessione aggiuntiva, come quando Mattarella, poche ore dopo la scossa che ha raso al suolo Amatrice già parlava di «ricostruzione». In alcune frazioni dell’Aquila case e seconde case restano inagibili e altri borghi «più belli d’Italia» scontano silenziosi la loro condanna a morte. E intatti restano i problemi sociali, urbanistici, culturali che le new town hanno incistato sul trauma della vita crollata.

Stavolta il numero degli sfollati sembra meno ingestibile e fa ancora più impressione, se rapportato agli “appena” duemila e rotti senzatetto, quello delle vittime. Soprattutto, pare che stavolta ci sia l’intento di intercettare i «reali bisogni» delle persone, è tutto un «prego, voi che ne pensate», «dite cosa è meglio per voi». Bene, benissimo, è un buon inizio. Volendo proseguire su questa strada ci sarebbero due o tre questioni in sospeso: la Val Susa, Taranto, i siti individuati (e ancora supersegreti) per lo stoccaggio delle scorie nucleari, e ancora gli insegnanti della «buona scuola», gli operatori sanitari, l’Anpi quando dice «No»… La lista è lunga, basta mettersi in ascolto.