Il New York Times ha pubblicato nei giorni scorsi un lungo reportage su WikiLeaks nel quale si sostiene che il materiale reso pubblico dal sito danneggia gli Stati uniti e – di fatto – favorisce la Russia. Non solo, perché viene fatto intendere, pur senza averne le prove, che il recente materiale pubblicato da WikiLeaks durante la convention democratica e che pone seri dubbi su Hillary Clinton, sia stato «fornito» dall’intelligence russa.

Julian Assange, proprio al Times, via Facebook, ha risposto che la Russia non è protagonista della scena mondiale come lo sono la Cina e gli Stati uniti. E che in ogni caso «la corruzione del Cremlino è una storia vecchia. Tutti criticano la Russia. È noioso», mentre Clinton e i democratici «hanno montato un’isteria stile neo-maccartismo sulla Russia» sottolineando che WikiLeaks non ha nel mirino nessun paese ma lavora per verificare il materiale che offre al pubblico.

Sulla vicenda sono necessarie alcune puntualizzazioni. Le prime due hanno a che vedere con il metodo di lavoro di WikiLeaks. Sicuramente i giornalisti del Times sanno bene come funziona, ma nel reportage fanno finta di non saperlo: il sito WikiLeaks pubblica solo materiale verificato e reale. Non indiscrezioni (o bugie, come i motivi – falsi – per cui entrare in guerra contro l’Iraq per i quali si spese – ad esempio – proprio il New York Times) ma solo materiale vero, autentico, completo: parliamo di file originali.

In secondo luogo la pubblicazione integrale del materiale che arriva, mette in secondo piano il «fornitore»; quello che conta è quanto è contenuto nei file e la sua verificabilità. Infine non può non contare in tutta questa vicenda la storia, il rapporto, tra il Times e WikiLeaks: come ricorda Stefania Maurizi sull’Espresso, nel 2010, quando vennero pubblicati i 76mila file segreti sul conflitto in Afghanistan, gli Afghan War Logs, «l’allora direttore del più potente quotidiano del mondo racconta che nove giorni prima di uscire con quello che la stessa stampa americana ha definito uno dei più grandi scoop degli ultimi 30 anni, il capo della redazione di Washington del Times, Dean Baquet, avvertì la Casa bianca».

Gli articoli al riguardo uscirono, ma «in altre parole, il più grande e potente giornale del mondo, pubblicò i cablo della diplomazia Usa sotto la supervisione del governo americano». Evidentemente, nonostante il cambio al vertice da allora del quotidiano, i rapporti tra WikiLeaks e il New York Times sono ancora complicati.

E la campagna elettorale americana con Hillary Clinton (non a caso segretaria di stato quando uscì il «Cable Leak») contrapposta a Donald Trump ha forse riacceso questo confronto, specie alla luce della promessa di Assange riguardo nuovo materiale in rampa di lancio. Documenti che potrebbero complicare e non poco la corsa di Hillary alla Casa bianca. L’attacco del quotidiano a WikiLeaks risulta quindi pretestuoso e campato su sospetti non provati inserendosi davvero in una logica da guerra fredda che sembrava ormai dimenticata. Non viene mai detto ma pare proprio che i reporters descrivano WikiLeaks come una sorta di «quinta colonna» di Mosca.

Sulla questione «russa» bisogna poi ricordare che WikiLeaks ha pubblicato i «Syria files» nei quali tanto Assad quanto Putin non escono certo come grandi statisti, così come del resto Putin non esce come capo di uno stato di diritto dai Cable Leaks, che costituiscono materiale rilevante per la storiografia contemporanea.

Va detta anche un’altra cosa, infine, come ha sottolineato Glenn Greenwald, l’autore – insieme al whistlebowler Edward Snowden – dello scoop sul Datagate.

Il giornalista ieri ha ricordato al New York Times che anche la pubblicazione dei «Pentagon Papers» (che valse il Pulitzer al quotidiano), paradosso per paradosso, ha finito per favorire la Russia. Greenwald si è spinto più in là, twittando che «secondo fonti, i giornalisti del Times non hanno probabilmente alcun legame diretto con l’Isis e Al Qaeda, ma la maggior parte di quello che pubblicano li aiuta».