Più che un documentario rock, One More Time With Feeling (fuori concorso) è un’autopsia a cuore aperto. Dopo la morte del figlio Arthur, molti si chiedevano come avrebbe reagito Nick Cave al trauma e come questo si sarebbe riversato sul suo lavoro, soprattutto alla luce della rinascita e reinvenzione avvenuta con Push Away the Sky. Che il musicista australiano nutra da sempre un’attenzione profonda nei confronti del cinema e dell’immagine in movimento non è certo novità dell’ultima ora.

Dalle collaborazioni pionieristiche con John Hillcoat sino al recente 20.000 Days on Earth, Cave ha sempre dato prova di essere in grado di smarcarsi dalle forme più abusate del cosiddetto rockumentary. One More Time With Feeling, sin dalle primissime immagini, con il fido Warren Ellis che dichiara in macchina di non avere mai parlato prima pubblicamente dell’intimità di Cave, si offre come una dichiarata rielaborazione di un lutto agghiacciante. Consapevole che si tratta soprattutto di un esorcismo pubblico, una sorta di messa in abisso dell’immagine di un dolore indicibile, Cave affronta a testa bassa il rischio dell’oscenità insito nel progetto.

Le riprese in 3D di Dominik delle fase di registrazione di Skeleton Tree, il nuovo disco disponibile a partire dal 9 settembre, rivelano il processo di composizione come vera e propria terapia di guarigione. Il bianco e nero, che in casi analoghi rischia sempre di rivelarsi auto compiaciuto, è il segno di mondo che ha perso i colori cui si tenta di accedere gradualmente attraverso la musica e le canzoni che prendono gradualmente corpo in studio (e gli inserti del colore verso il finale sembrano un tentativo di ritorno alla vita…). Da questo punto di vista, gli studiosi più attenti del musicista noteranno il ridistribuirsi degli equilibri compositivi in relazione alla presenza di Warren Ellis del quale Nick Cave afferma, con straordinario affetto e tenerezza, che «si sforza di tenere tutto insieme senza darlo a vedere». Offrendosi allo sguardo della macchina da presa, il musicista è come se sfidasse le curiosità più morbose tipiche dei tabloid britannici.

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Le interviste, frontali, in macchina, come in un interrogatorio, nelle quali Cave parla della morte di Arthur, tentando di spiegare come un evento indicibile abbia completamente ridefinito il suo principio di realtà, è un momento quasi insostenibile, ai limiti dell’autolesionismo. «In passato non mi sarei mai nemmeno sognato di fare una cosa simile», afferma con un’effettività del tutto indifferente nei confronti di eventuali problemi di ricezione. «In effetti mi sento un po’ a disagio anch’io», ribatte Dominik, «mi chiedo cosa stia facendo».

L’aspetto più interessante di questo terribile corpo a corpo con un dolore inesprimibile è il tentativo da parte di Cave di letteralmente spiegare il suo rapporto con le parole e di come questo sia profondamente cambiato dopo la morte di Arthur. Il modo in cui descrive la percezione del trauma del lutto come un buco di tempo elasticizzato, dal quale non ci si riesce mai ad allontanare del tutto, mette una volta di più in evidenza una visione del mondo fatta di parole del quale si scopre, in forme del tutto inaccettabili, nella loro lancinante violenza, una formulazione del tutto nuova e inattesa.

E di fronte all’evidenza attonita di una metamorfosi radicale dell’equilibrio delle cose, di un dolore del quale si rende conto come da un altro pianeta, vedere il musicista immerso nella realtà dello studio, motore immobile del film e del disco in fase di scrittura, ci si rende conto dello sforzo sovrumano di quella che lo stesso Cave definisce «una vendetta». Una vendetta che preveda che si continui a vivere, che si continui a essere felici, che si continui a vivere. In questa determinazione dell’andare avanti, che coinvolge anche la moglie Susie, anche lei si offre alla macchina da presa, Cave è come se tentasse di proteggere il segreto del suo dolore esponendolo paradossalmente allo sguardo di tutti. Come per nascondersi alla luce del sole.

Così, mentre The Skeleton Tree prende corpo canzone dopo canzone, Cave letteralmente riflette sulla posizione della sua arte nel mondo e in relazione alle cose e alla loro transitorietà. Così, mentre da un lato il lavoro in studio con Ellis si offre come una titanica forma di resistenza, la voce fuoricampo di Cave dichiara la sua sola fede nell’attimo presente. Come se tutto il tempo non fosse altro che un unico momento di presente, sottratto al passato e al futuro.
E quando sui titoli di coda si ascolta la voce di Arthur che insieme al fratello Earl canta Deep Water di Marianne Faithful accompagnati al pianoforte dal padre diventa davvero difficile non commuoversi. One More Time With Feeling è molto di più di un film. È un atto di rigenerazione che tenta di tornare al mondo seguendo la più radicale delle indicazioni di Jean Genet: «Se il dolore è troppo, che riposi nella parola».