La maggioranza con la quale l’aula del senato ha rovesciato l’indicazione della giunta per le immunità, che si era espressa per autorizzare l’arresto del senatore del Nuovo centrodestra Antonio Azzollini, è stata larghissima. Più ampia del più largo voto di fiducia raccolto dal governo Renzi. In 189 ieri mattina a palazzo Madama hanno detto no alla procura e al gip di Trani, nonché al tribunale del riesame di Bari che tre settimane fa ha confermato l’esigenza della misura cautelare: il senatore evita così l’arresto domiciliare. È accusato di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta della casa di cura Divina provvidenza di Bisceglie, nel frattempo commissariata dal Vaticano; le indagini ed eventualmente il processo andranno avanti.

Azzollini è stato sindaco di Molfetta – risulta indagato anche per una vicenda che riguarda gli appalti nel porto di quella città, a dicembre scorso il parlamento ha negato alla procura l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche – ed è da quattordici anni (con un intervallo di due dal 2006) presidente della commissione bilancio del senato. Si è dimesso venti giorni fa «per salvaguardare la commissione»; tutte le poltrone delle commissioni verranno però riassegnate a settembre e a questo punto il senatore – che è del partito di Alfano, corrente Schifani – può riprendersi la sua. Secondo i magistrati pugliesi proprio la guida della commissione bilancio aveva permesso ad Azzollini di ottenere la proroga degli sgravi fiscali e contributivi con i quali si provò a rimandare il crack da 500 milioni dell’istituto di cura. Azzollini, secondo le accuse, sarebbe diventato il vero amministratore del Divina provvidenza. A pagina 8 delle quasi 600 che compongono la richiesta di autorizzazione a procedere recapitata al senato, i magistrati citano l’episodio più eclatante che sarebbe avvenuto nel luglio di sei anni fa quando, secondo quanto riferito ai pm da un testimone, Azzollini si sarebbe rivolto in questo modo alle suore che amministravano l’istituto: «Da oggi comando io se no vi piscio in bocca».

Il Nuovo centrodestra è naturalmente un alleato indispensabile per il governo, malgrado l’approdo in maggioranza del nuovo gruppo di Verdini i numeri a palazzo Madama restano sul filo per il governo Renzi. Ciò nonostante Azzollini non era stato difeso con saldezza né da Alfano né dall’ex ministro del Ncd Lupi. L’11 giugno scorso, alla notizia della richiesta di arresti, il presidente del Pd Matteo Orfini aveva dichiarato: «Mi pare che sia inevitabile votare a favore dell’arresto». Del resto il Pd in questa stessa legislatura, nel maggio dell’anno scorso, aveva autorizzato uno dei pochissimi arresti della storia parlamentare italiana, ai danni del deputato democratico Francantonio Genovese, condotto immediatamente in carcere e cinque giorni dopo spostato ai domiciliari dal giudice.

Questa volta invece il partito ha lasciato libertà di coscienza ai senatori, il presidente del gruppo Zanda lo ha scritto in un inciso della lettera circolare con la quale ha ricordato l’appuntamento in aula, martedì sera. Centrodestra e Forza Italia hanno chiesto il voto segreto, così si può solo calcolare che circa i due terzi del gruppo Pd – una settantina – abbiano alla fine deciso di negare l’arresto, votando no o astenendosi (17 astenuti). Ha favore hanno dichiarato di aver votato Lega, Sel e M5S (96 a favore); i grillini hanno inscenato una protesta successivamente al voto sia al senato che alla camera. Alcuni senatori del Pd hanno deciso di sfidare l’impopolarità e hanno dichiarato il loro voto contrario, tra loro Manconi, Russo, Pizzetti, Fabbri, Ichino e Marcucci (dunque anche qualche renziano doc).

«Nulla tra le carte trasmesse lascia intendere che il senatore Azzollini voglia sottrarsi al giudizio, inquinare le prove o commettere nuovamente il reato di cui è accusato. Manca la stretta necessità di sottoporlo agli arresti domiciliari violandone la libertà personale e le prerogative di parlamentare», ha scritto il senatore Manconi. Mentre il capogruppo Zanda ha accusato il voto segreto «per giochi politici» avvertendo che non è stata un’iniziativa del Pd chiederlo. Il che è apparso in contraddizione con la decisione di lasciare libertà di coscienza. E in contraddizione con quella scelta è anche la dichiarazione della vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani, pronta a rivolgersi agli elettori pochi minuti dopo il voto decisivo. Ha chiesto scusa a nome del partito.