Tra le questioni economiche spesso dibattute per spiegare il declino italiano è possibile annoverare quello della scarsa produttività, cioè la capacità del lavoro e dei beni capitali, ma soprattutto del modo in cui questi due fattori si combinano attraverso la tecnologia e l’organizzazione dei processi di generare valore aggiunto. Per far luce sulle dinamiche della produttività è possibile utilizzare gli indicatori relativi al periodo tra 1995 e 2014, pubblicati ieri dall’Istat. L’evidenza più rilevante mostra che in Italia durante l’intero arco di tempo considerato, la produttività totale dei fattori, cioè «la crescita del valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico e ai miglioramenti nella conoscenza e nei processi produttivi» è diminuita di circa lo 0.3% annuo.

Certo, tra il 1995 e il 2014, l’economia italiana ha subito cambiamenti strutturali, dall’introduzione dell’euro alla crisi economica dal 2008, ma risalendo nel tempo le statistiche ufficiali, è indubbio che il declino italiano ha radici ben più lontane, che con caratteristiche e problemi simili risalgono a prima del 1995. È soprattutto il periodo pre-crisi (2003-2009) quello che maggiormente spiega la dinamica italiana in cui nonostante l’aumento, seppure in proporzioni diverse, delle ore lavorate e di beni capitali (mezzi, macchinari, ecc..) nella produzione, il tasso di crescita del reddito complessivo prodotto da questi è risultato negativo (-0,9% in media all’anno).

Tra il 2009-2014 la produttività totale dei fattori ha mostrato invece un aumento medio positivo seppure esiguo (+0.4%). Questo non è dipeso da un atteggiamento anticiclico della politica economica (più investimenti in settori strategici e in innovazione) ma da una riduzione dell’impiego dei fattori (soprattutto del lavoro) superiore al crollo del valore aggiunto. È così che la competitività del sistema Italia è andata via via deteriorandosi. Purtroppo le ricette adottate hanno palesemente fallito, mostrando la palese inefficacia degli strumenti (svalutazione salariale e defiscalizzazione svincolata per le imprese) prima ancora che degli obiettivi.

Nessuno si è invece preoccupato degli investimenti in innovazione di processi e prodotti, ma anche in formazione di capitale umano. In proporzione al Pil, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo in Italia sono circa la metà di quelli francesi, e quasi un terzo di quelli tedeschi. Ancora più pronunciato è il divario nel confronto tra settori privati.

L’azione di governo, piegandosi incondizionatamente all’austerità, non soltanto ha abbandonato l’obiettivo di ridurre una volta per tutte gli squilibri con gli altri paesi europei, ma ha rinunciato soprattutto alla questione nazionale per eccellenza, quella del divario tra Nord e Sud Italia, che si ripercuote sull’intero paese. Gli ultimi dati del rapporto Svimez confermano la drammaticità del dualismo italiano.

Tornando ai dati sulla produttività, se al Centro-Nord tra il 2008 e il 2013 questa è diminuita dello 0.8%, nel Mezzogiorno la riduzione è pari al 2.9%. Il crollo degli investimenti che ha caratterizzato l’Italia, è stato di gran lunga più marcato nel Meridione con una riduzione rispettivamente del 24.6% al Nord e del 53.4% al Sud.

Ancora una volta, questa è una politica che risale alla crisi dei primi anni Novanta e non a quella del 2008: tra il 1991 e il 2008, gli investimenti pubblici al Sud passano da 10000 milioni a 4000 milioni di euro, mentre al Nord essi aumentano da 12 mila a 16 mila milioni di euro. Ma si sa, non è solo la quantità di risorse a determinare incrementi di produttività ma occorre una visione di sviluppo dell’intero sistema che non può che essere diretto dall’intervento pubblico.

Per questo, gli annunci del governo, da ultimo quello della ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, di destinare 80 miliardi per investimenti in infrastrutture e relegare il ruolo dello Stato a quello di facilitatore per le imprese appaiono quanto mai preoccupanti. Non è rinviabile un intervento pubblico che sia sistemico, ovvero destini le proprie risorse (comprese quelle per infrastrutture) in virtù di obiettivi industriali definiti, assumendone direttamente il controllo ed evitando la svendita ai capitali esteri di quel che rimane dell’industria italiana.