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Poche sono le parole che riescono a plasmare l’immaginario collettivo. Una di queste è sicuramente è start up. Viene usata per indicare quelle imprese che nate da una costola di una grande impresa o da una università hanno il gusto dell’innovazione. Il sogno è quello di sviluppare una applicazione che conquista un mercato emergente, arricchendo i suoi protagonisti.

Più trivialmente, negli ultimi tempi, è indicata come la rotta per uscire dalla tempesta della disoccupazione di massa, rinviando a un indistinto futuro l’arricchimento. Le start up sono quell’«isola che non c’è» dove dirigersi, occultando così il fatto che il capitalismo contemporaneo è basato sulla jobless growth, cioè sulla crescita economica senza aumento dell’occupazione.

A smontare questa favola ci hanno provato in molti economisti. Ultima è Mariana Mazzuccato, che ha scritto ben due libri per segnalare il fatto che l’innovazione tecnologica e la sua diffusione tra le imprese non è cosa di spericolati capitalisti di ventura, ma degli investimenti in ricerca e in formazione degli aborriti Stati nazionali. Il venture capital interviene, infatti, sempre a posteriori, cioè nella sua fase di trasformazione di una idea in prodotto. Ma senza gli investimenti pubblici difficilmente l’innovazione vedrebbe la luce.

Chi denuncia il carattere parassitario del capitale di ventura non è una economista radical. Basta infatti conoscere i flussi di innovazione, individuando nel finanziamento pubblico l’humus per poter produrre innovazione di prodotto e di processo. Dietro la retorica sulle start up c’è solo la misera e inventata figura, cara al pensiero neoliberista, di quell’individuo proprietario che tratte le conoscenze acquisite in capitale umano prima e intellettuale poi. Una figura prometeica che può essere chiamata in molti modi (ultimamente il termine ricorrente è makers) . In ogni caso è un singolo che, assieme a pochi solidali omologhi, ha la capacità di ricombinare conoscenza acquisite e eterogenee tra di esse al fine di mettere a fuoco una app o un prodotto che successivamente può essere messo in produzione. È in questa fase che i venture capitalist intervengono per finanziare la produzione di prototipi.

Lo startuppers è dunque il giovane, o l’«esubero» cacciato da un’impresa, che diventa imprenditore di se stesso. Poco importa se i redditi dei singoli sono poco sopra la soglia della povertà, né che la pratica dell’autosfruttamento è la regola dominante. Più che l’«isola che non c’è», le start up sono dunque un dispositivo finalizzato all’addestramento della precarietà, dove le imprese si appropriano dell’innovazione prodotta dalla conoscenza comune. Una favola, quindi, con ben pochi «lieto fine».