Siamo vicini all’inizio della campagna referendaria sulla perversa deformazione del Senato. Per chi le si oppone, come a tutto il disegno devastante di Renzi, la lotta sarà durissima. È enorme il divario di forza tra i due schieramenti che si vanno costituendo. Variegati, come in tutti i referendum, lo è di più quello del No, il nostro. È perciò urgente non soltanto definire l’identità nostra di oppositori all’eversione renziana, indicando le ragioni del No, che, soprattutto su questo giornale, sono state esattamente enumerate e ampiamente motivate, ma, immaginando quali potranno essere le argomentazioni del Sì, per contestarle e rovesciarle.

Saremo certamente accusati di conservatorismo, immobilismo, passatismo, di sostegno ad apparati pletorici, inefficienti, costosi, inadeguati, irresponsabili ecc., di fonte ai quali poi …. si ergerebbe la modellistica istituzionale high-tech della onorevole Boschi. Renzi dirà che vogliamo mantenere intatto l’assetto istituzionale disegnato settanta anni fa, attribuendo, implicitamente o anche direttamente, a questo assetto la responsabilità dell’arretratezza del Paese, tacciandolo di inidoneità a reagire alla crisi economica, a fronteggiare i problemi reali come quello del precariato, della disoccupazione più alta d’Europa, della corruzione endemica, dei poteri mafiosi e quant’altro. Falso, certo. Ma il nuovismo è sciaguratamente penetrato nel senso comune ed ha gettato sulle istituzioni repubblicane la responsabilità dell’economia liberista, ha avvolto la democrazia costituzionale nell’ombra spessa della delusione.

Sarebbe perciò imperdonabile permettere che la sinistra referendaria possa apparire come tetragona guardiana degli assetti istituzionali esistenti, delle parole, degli accenti e delle virgole della Carta costituzionale. Perché non lo è, anzi, non può, non deve esserlo. Tanto più che dispone di un ricco patrimonio di proposte autenticamente riformatrici, quelle che, per riaffermare i principi della nostra Costituzione, perseguirne gli obiettivi, mantenerne le promesse, realizzare il compito della Repubblica, adeguerebbero perfettamente le nostre istituzioni alla fase storica del dominio del liberismo, della compressione dei diritti, del precariato, della disoccupazione permanente, delle ineguaglianze crescenti, del rischio incombente del collasso ecologico.

Dovremmo quindi indicarle. Perciò provo a sottoporre alla discussione un possibile quadro di proposte volte sia a riformare l’apparato centrale della Repubblica che ad integrare la democrazia rappresentativa con istituzioni della democrazia diretta.

Per quanto riguarda la struttura del Parlamento, riprenderei la nobile, costante e mai smentita scelta della sinistra a favore del monocameralismo e del sistema elettorale proporzionale, sistema da sancire contestualmente in Costituzione perché condizione indefettibile della opzione monocamerale. Un numero di 500 deputati potrebbe perfettamente soddisfare le esigenze rappresentative e quelle funzionali dell’organo.

Ai Presidenti delle Regioni andrebbe riconosciuto il potere di intervento e di emendamento nel corso del procedimento di formazione delle leggi della Repubblica, direttamente o indirettamente rilevanti per l’esercizio delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni.
A garanzia dell’ordinamento costituzionale, andrebbe prevista l’istituzione delle leggi organiche, da approvare con la maggioranza assoluta, sia articolo per articolo che nella votazione finale, in materia di diritti costituzionalmente riconosciuti, di organi supremi della Repubblica, delle Magistrature, delle Regioni.

Ad assicurare concretamente i diritti sociali, andrebbe poi sancita la destinazione, con norma costituzionale, di un terzo delle entrate fiscali alla spesa per assicurarne il godimento (art. 4, 32-38 della Costituzione).

A difesa dei “nuovi diritti”, dovrebbe essere prescritta l’inalienabilità, costituzionalmente sancita, dei beni (comuni) a godimento universale o territorialmente diffuso.

L’ integrazione della democrazia rappresentativa mediante istituti di democrazia diretta, comporterebbe innanzitutto l’ attuazione dell’art. 49 della Costituzione, con la conseguente qualificazione di partiti politici soltanto per le associazioni che assicurano di fatto (a) «la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale», (b) la responsabilità permanente della leadership nei confronti di una direzione collegiale rappresentante della base, (c) l’iniziativa congressuale di un quinto degli iscritti in caso di inerzia nella convocazione ordinaria (temporalmente cadenzata) del congresso, etc. (d) la carta dei diritti degli iscritti, (e) azionabili innanzi al giudice ordinario;

Andrebbe poi previsto l’obbligo del Parlamento di deliberare su proposte di legge di iniziativa popolare sottoscritte da 50 mila elettori, entro un anno dalla presentazione. Andrebbero inoltre istituiti: a) il referendum propositivo su un progetto di legge di ampia iniziativa popolare (500.000 elettori?) che incontri l’inerzia del Parlamento o la sua distorsione nei fini e nella portata, b) il ricorso diretto alla Corte costituzionale sulla legittimità di una legge (come previsto in Germania), c) il referendum preventivo alla ratifica dei trattati, come quelli europei, che intervengono sulle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, d) o sulle norme relative ai diritti costituzionalmente riconosciuti, d) o che impegnano militarmente la Repubblica.

Per questi obiettivi la vittoria del No al referendum costituirebbe presupposto e impegno per l’iniziativa popolare di progetti di leggi costituzionali volti a proporli. Respinta la deforma della Costituzione ordita dal Governo, sarebbe il corpo elettorale ad assumere l’onere della revisione della Costituzione per consolidarne i principi, attuarne i contenuti, adempierne il compito. Sì, quello dell’articolo 3, secondo comma, l’eguaglianza di fatto.