«Aboliamolo». Nella Giornata europea dei diritti del malato, Cittadinanzattiva ha puntato i riflettori su uno dei più impopolari lasciti dell’ultimo governo Berlusconi: il «superticket», che dalla legge finanziaria del 2011 ha disposto il pagamento di 10 euro su ogni ricetta per prestazioni di diagnostica e specialistica. Una misura mantenuta dagli altri governi (Monti, Letta, Renzi) che si sono succeduti in questi anni, di fronte alla quale l’associazione ha avviato una raccolta di firme – anche online con una petizione su Change.org – partita ieri anche grazie alle iniziative che sono state organizzate in 110 città della penisola
«Il superticket – si sottolinea nella petizione – è una tassa iniqua sulla salute che ha alimentato le disuguaglianze esistenti, ha aumentato i costi delle prestazioni sanitarie, gravando ancor più sulle tasche delle persone che sempre più spesso rinunciano a curarsi, pur avendone bisogno. E non ha rimpinguato le casse del Servizio sanitario nazionale, anzi paradossalmente le ha impoverite, spingendo i cittadini, snervati dai costi maggiorati e dalle lunghissime liste di attesa, ad andare nel privato, che spesso diventa persino più conveniente per alcune prestazioni, come ad esempio gli esami del sangue».

A riprova, Cittadinanzattiva sottolinea che nel report della Corte dei Conti del marzo scorso si segnala come nel 2015 gli italiani abbiano pagato 2 miliardi e 857 milioni di euro di superticket, oltre naturalmente al costo dei ticket per le singole prestazioni. La quota pro-capite di compartecipazione del superticket è stata in media di 47 euro, anche se nell’applicazione dell’impopolare provvedimento le regioni hanno preso all’epoca posizioni diverse.

Le piccole (e ricche) Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige hanno deciso di non farlo pagare. All’opposto Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Calabria e Sicilia hanno fatto pagare i 10 euro a tutti. Ancora: Emilia Romagna, Umbria, Toscana, Veneto e Marche hanno modulato il superticket in base al reddito. Infine Lombardia, Piemonte, Basilicata e Campania hanno modulato il superticket sulla base della complessità della prestazione richiesta dal paziente di turno.
Alcune categorie sono state esentate dal pagamento. Si va dai bambini e dagli anziani con redditi familiari sotto i 36mila euro annui; ai disoccupati, pensionati sociali e pensionati al minimo e i loro familiari a carico, con basso reddito (8.260 euro, aumentato in base al numero dei familiari). Esentati anche i malati cronici, quelli affetti da malattie rare attestate dall’Asl, e gli invalidi civili, di guerra, per lavoro e per servizio.

Comunque sia, l’associazione va all’attacco: «Quella che doveva essere una manovra transitoria e straordinaria è diventata invece la normalità. Quindi chiediamo al presidente del consiglio, al governo, ai ministeri di competenza, al parlamento e alla conferenza Stato-Regioni di abolire il superticket di 10 euro sulla ricetta, e di introdurre misure che ripristinino l’equità. Perché è evidente che ai cittadini si chiede sempre di più di sopperire di tasca propria al costante taglio di risorse destinate al Servizio sanitario nazionale, come conferma anche il Documento di economia e finanza 2016. Il superticket – chiude Cittadinanzattiva – è una tassa sulla salute, che danneggia non solo i cittadini ma anche il sistema pubblico, spingendo le persone a rivolgersi al privato, o a rinunciare a curarsi».

Sul primo punto denunciato, la conferma arriva dal Tribunale dei diritti del malato, pronto a segnalare: «La spesa sostenuta privatamente dai cittadini per prestazioni sanitarie in Italia è al di sopra della media Ocse: 3,2% in Italia, a fronte di una media del 2,8% negli altri paesi industrializzati». Il motivo è semplice: fra ticket, superticket e liste d’attesa, alla fine il privato diventa più conveniente – e tempestivo – del pubblico.

Quanto alla rinuncia alle cure, la stessa Cittadinanzattiva ricorda che un italiano su quattro non riesce ad accedere a servizi e prestazioni sanitarie a causa di liste di attesa e ticket, e in parallelo il Censis ha registrato che il 41% delle famiglie ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria nel corso del 2015.

Infine lo stesso ministero della salute ha certificato che, nel 2014, solo solo 8 Regioni su 21 hanno garantito il rispetto dei Lea, i livelli essenziali di assistenza.