Avanti tutta, ma in direzioni opposte e contrarie. L’ex centrodestra marcia diviso su tutto: il rapporto con il governo, la legge elettorale e la strategia conseguente, l’immagine che i leader intendono proporre all’elettorato. Ieri, per caso, Berlusconi e Salvini erano entrambi nel redivivo Senato. Non risulta che si siano scambiati neppure mezza parola.

Nella sala Koch l’ex Cavaliere riunisce i suoi senatori. Appare in piena forma, ma chi lo conosce assicura che è preoccupatissimo per l’assedio Vivendi, e infatti in serata, per la rituale celebrazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa userà toni durissimi contro i francesi: «Quello di Vivendi è un ricatto e un tentativo di estorsione. Non mantenere la parola data è grave. Non immagino una Mediaset non controllata dalla mia famiglia». Guerra totale.

Con la sua truppa, però, il capo sceglie di non affrontare il doloroso argomento Mediaset. In compenso usa toni quasi altrettanto duri. Quando parla di Salvini e di Giorgia Meloni li bolla con uno sprezzante «i lepenisti». Quando, terminata la riunione, gli raccontano che il leghista ha adombrato «inciuci» tra gli azzurri e il governo in nome della doppia emergenza Vivendi e Mps rincara: «Il giovane comunista è ancorato in lui. Per questo spesso ha uscite non apprezzabili».

Naturalmente nella scelta azzurra di votare ieri a favore dello scostamento di bilancio che permetterà al governo di alzare di 20 miliardi il debito per salvare le banche l’affaire Vivendi qualcosa c’entra, e così nei toni concilianti che l’ex Cavaliere adopera a proposito di Gentiloni, pronto com’è a «votare qualsiasi cosa di convincente la sinistra proponga», o ancora negli elogi a Sergio Mattarella che dispensa a piene mani. Ma non c’è solo questo. Sin da prima del referendum e della «scalata ostile», Berlusconi aveva scelto di adottare una strategia opposta al previsto e di non vestire i panni del descamisado anti-sistema ma quelli del leader saggio e moderato, capace di stabilizzare quel che gli altri, Renzi incluso, destabilizzano. Dunque gioca a tutto campo, tanto da dichiararsi d’accordo con M5S sul reddito di cittadinanza: «E’ giusto quando ci sono oltre quattro milioni di poveri».

Ma è sul piano della legge elettorale che lo scontro tra gli ex alleati si profila all’ultimo sangue. Berlusconi ripete la sua formula: niente Mattarellum perché in un sistema tripolare sarebbe controproducente. Dunque proporzionale, e poi, ma solo dopo le elezioni, un’assemblea costituente per riformare la Carta, che il redivivo vagheggia formata da 100 componenti, metà parlamentari, metà tecnici.

Salvini gioca duro. Ha concordato la sua uscita sul Mattarellum direttamente con Renzi, consapevole del colpo micidiale che quel modello elettorale affibbierebbe a Berlusconi. La coalizione sarebbe obbligatoria, ma la golden share spetterebbe alla Lega, concentrata nei decisivi collegi del nord. Berlusconi risponde sullo stesso tono: il proporzionale metterebbe la Lega fuori gioco, permetterebbe a Fi di rovesciare l’abituale schema facendo a meno delle coalizioni, renderebbe inutili le odiate primarie. E infatti l’azzurro spiega che probabilmente non serviranno, ma se invece fossero indispensabili dovranno essere regolamentate per legge.

Anche questa, come quella con Vivendi, è guerra totale, di quelle che non contemplano pareggi. Salvini resta ottimista. Dai microfoni di Un giorno da pecora dichiara che «il 2017 è l’anno in cui andrò al governo». Giancarlo Giorgetti, “il Gianni Letta della Lega”, è meno gasato: «Con il proporzionale siamo morti».