Forniscono un contributo fondamentale alle nostre famiglie, rimanendo spesso nell’ombra e accettando di subire gravi abusi pur di non perdere il lavoro: le badanti parlano raramente, perché è difficile far uscire le proprie storie dalle mura di casa, soprattutto se si tratta di immigrate. A Catania, grazie al sostegno offerto dalla Cgil, un gruppo di lavoratrici ha deciso di uscire allo scoperto, denunciando una pesante condizione di sfruttamento. Leni Vallejo, originaria delle Filippine, ha rotto il muro del silenzio nel corso di un’iniziativa del sindacato.

«Molte di noi vengono sfruttate, ingannate, spesso sotto pagate, giocando sul bisogno del permesso di soggiorno. A tante viene proposto un contratto con il minimo delle ore, mettiamo 5 o 6 al giorno per cinque giorni, quando poi nella realtà se ne fanno molte di più». Il lavoro della badante è difficile da quantificare con precisione, spesso si include il vitto e l’alloggio, ma le ore notturne non sempre si possono passare a dormire, dipende dai casi e dalle persone da assistere. L’extra, che in tantissimi casi arriva al doppio, o anche oltre, rispetto a quanto dichiarato nel contratto di assunzione, viene liquidato con piccoli forfait fuori busta o addirittura imposto come prestazione gratuita.

E dire che queste donne si dedicano al lavoro dando il massimo: Maryla, anche lei filippina, racconta che ancora oggi, dopo 25 anni, lavora con la stessa famiglia che la accolse al suo arrivo in Italia. «Ho cresciuto loro figlio come una seconda mamma – spiega con una punta di commozione – Adesso lui vive a Milano, e io negli anni sono passata dal ruolo di tata a quello di collaboratrice domestica. Lui ogni volta che torna mi abbraccia forte forte: dice che sono stata fondamentale per la sua educazione, e i suoi genitori gli hanno sempre detto, fin da quando era bambino, che mi doveva rispetto». Una vita difficile, spesso precaria, ma che può dare soddisfazioni.

«È vero – riprende Leni – tante di noi si sono legate all’Italia. Alcune hanno scelto di far crescere i figli qui, altre li hanno rispediti nei Paesi di origine, a vivere con i nonni o gli zii. Mandiamo loro qualcosa, quando possiamo, con enorme sacrificio, ma non è facile mettere soldi da parte. Soprattutto quando per poter raggiungere le ore sufficienti richieste dallo Stato per concederti il permesso di soggiorno sei costretta a stipulare contratti fasulli, in aggiunta a quello principale, pagandoti i contributi da sola o addirittura dando una somma al datore di lavoro fittizio». Non è accaduto a Leni, ma succede spesso, un ricatto che devono subire tante donne filippine, del Bangladesh, delle Mauritius, dello Sri Lanka.

Angela Battista ed Emanuel Sammartino curano lo sportello migranti della Cgil, e confermano che gli abusi sono tanti. «Non c’è solo il nero nei campi o nel settore edile, ovviamente gravissimo – spiegano – Esiste anche sfruttamento dentro le nostre case, nei servizi alla famiglia, e in questo caso le vittime principali sono le donne: con il datore di lavoro spesso si concorda un fisso mensile, praticamente a cottimo, ma senza mai considerare tutte le ore fatte. Può essere ad esempio di mille euro, ma poi in busta te ne riconosco solo 600, il resto in nero, risparmiando sui contributi».

«In alcuni casi la previdenza è completamente a carico delle lavoratrici – continuano i sindacalisti della Cgil – In altri, come ha denunciato Leni, bisogna sommare ulteriori contratti, fittizi, per raggiungere il reddito minimo richiesto dallo Stato per il permesso di soggiorno: e quel secondo contratto mica te lo danno gratis, capita che ti chiedano delle cifre in cambio». Così all’illegalità si somma il ricatto, in una spirale di paura, a volte di omertà, che non ha vie di uscita: anche perché queste donne spesso hanno paura di denunciare. Per mettere fine a queste ingiustizie, da anni la Cgil chiede di cambiare la legge Bossi-Fini.

Gli immigrati danno un importante contributo in città di media grandezza come Catania: se i cittadini residenti sono poco più di 300 mila, la comunità più grossa, quella proveniente dallo Sri Lanka, è ad esempio composta da 2000 persone. Alle ultime amministrative, per l’elezione del consigliere comunale aggiunto, si è formata una nuova consapevolezza, che ha avvicinato i neo-catanesi non solo alla politica, ma anche al sindacato.

E la partecipazione delle donne è stata notevole: «Non solo si sono presentate come candidate – spiega Erica Sapienza, responsabile del Coordinamento donne Cgil – ma hanno cominciato anche a svolgere attività sindacale. Alle nostre riunioni si sono raccontate, hanno fatto emergere le loro storie: perché prima ancora di fare attività politica è fondamentale trovare delle persone con cui parlare, con cui fare amicizia».

Alla discriminazione etnica spesso si somma quella di genere: «Catania è in fondo alle classifiche per tasso di attività femminile – riprende Sapienza – basti pensare che la media nazionale è al 55%, mentre nei paesi Ocse è al 65%, come nelle nostre città del Nord. Qui a Catania siamo bloccati al 27%: non esiste contrattazione di genere nelle grandi aziende, né una specifica politica del Comune per incentivarla o per migliorare welfare e servizi, nonostante le nostre ripetute richieste sia al mondo delle imprese che alle istituzioni».

Suvi, mediatrice culturale proveniente dal Bangladesh, conferma: «Faccio i salti mortali – spiega – per dividermi tra i miei figli, il negozio che gestisco insieme a mio marito, e i lavori di traduzione e interprete che mi vengono proposti dalla Questura o dalla Procura. Spesso devo rinunciare alle chiamate, perché gli asili non fanno orari che ci vengano incontro. Senza contare il fatto che i lavori per il pubblico ti vengono pagati dopo mesi, ma intanto come le paghi le bollette?».