Grazie ai volumi Here, Bullet e Phantom Noise Brian Turner si è affermato come il maggior poeta di lingua inglese impegnato a scrivere sulla guerra in Iraq. Contrario da sempre all’intervento militare, Turner ha tuttavia combattuto per un anno e le sue poesie mostrano la consapevolezza della sua contraddittorietà, sebbene si sforzino di dare voce tanto ai civili iracheni quanto ai combattenti nemici.

Nonostante sia stato accusato dallo scrittore e saggista iracheno Sinaan Antoon (l’autore di Rapsodia irachena, Feltrinelli) di privilegiare troppo spesso il punto di vista americano, Turner rappresenta un caso piuttosto raro di scrittore statunitense che si è impegnato a studiare la lingua, la storia e la geografia del paese occupato, per poi incorporare queste conoscenze nella sua opera poetica. Più di recente ha deciso di cimentarsi con il genere che domina ancora la produzione letteraria americana sulle guerre del nuovo millennio: il memoir.

La mia vita è un paese straniero (assai ben tradotto da Guido Calza per le edizioni NN (pp. 280, € 18,00) è diverso da testi autobiografici come quelli di Colby Buzzell o di Matthew Gallagher, caratterizzati da un realismo spesso brutale, che trova la sua cifra stilistica più tipica nel linguaggio cinico e fatalista con cui le truppe esorcizzano gli orrori subiti o perpetrati.
Il memoir di Turner – pur senza ignorare la classica tripartizione tra arruolamento, guerra e ritorno a casa – non ha un andamento cronologico, è frammentario e si compone di capitoli molto brevi. La prosa è meditativa, surreale, in grado di fondere assieme, attraverso simboli e metafore, epoche e luoghi tra loro distanti. Inoltre, pur concentrandosi sulla guerra irachena, Turner rievoca anche le sue precedenti esperienze in Bosnia e quelle dei suoi avi in Vietnam, a Iwo Jima, a Gettysburg.

Nell’incipit l’autore immagina di essere un drone: «attraverso il buio sopra il mio corpo, volo su mia moglie che dorme accanto a me». Secondo il critico americano Patrick Deer, «immaginandosi come un drone all’inizio e alla fine del suo memoir, Turner richiama l’attenzione sulla complicità sua, e dei suoi lettori, con quelle tecnologie della violenza remote e alienanti». Spesso dilaniato tra i suoi doveri di soldato e gli imperativi della coscienza, tra la consapevolezza di appartenere a una tradizione marziale americana che nella sua famiglia risale perlomeno alla Guerra Civile e l’empatia nei confronti degli iracheni, Turner si affida al linguaggio, alla delicatezza con cui descrive persino una donna che si prepara a farsi esplodere («le gambe spariscono al di sotto, le braccia si aprono all’esterno, come per provare il movimento, i polpastrelli e i palmi già immersi nel nulla che verrà») per evocare una pietas capace di abbracciare nemici e commilitoni, e di restituire una scintilla di vita anche a chi se n’è andato.

Tra i capitoli più riusciti, quello in cui viene descritto un raid notturno in Iraq. Sin dalla ripetizione lirica della frase «The soldiers enter the house» (nella casa di altri, di una famiglia irachena svegliata nel cuore della notte), che si può anche tradurre con «i soldati entrano in casa» (nella loro casa: «Honey I’m home!», si legge poche righe più sotto) questo capitolo gioca sul tema dell’anatopismo (analogo spaziale dell’anacronismo), su quella difficoltà, cioè, registrata in molta della letteratura sulle nuove guerre, a distinguere tra l’inusuale e il familiare.

Turner non può descrivere il raid, infatti, senza evocare la possibilità che a essere assalita sia una casa americana, la sua casa. Non per nulla, i soldati «danno un calcio alla porta ed entrano nella casa e intanto si ricordano delle grigliate in giardino»: il confine tra «qui» e «là» si assottiglia, il «nemico» somiglia sempre più a «noi», la violenza rivolta verso i sospetti terroristi viene esercitata dai soldati anche su se stessi, sulle loro coscienze, sulla loro dignità.
Scrivendone sul «Guardian», Tim Adams ha osservato come sia importante che Turner scelga di descrivere in questo drammatico capitolo non solo il modo in cui le cose sono effettivamente andate, ma anche come sarebbero potute andare: «I soldati entrano nella casa e si tolgono gli anfibi impolverati e dallo zaino tattico tirano fuori una raccolta di poesie, Iraqi Poetry Today, e si mettono a leggere ad alta voce e dicono ai bambini spaventati, sottovoce, con i palmi aperti nel gesto più tenero che hanno da offrire : ‘Va tutto bene, piccoli, va tutto bene’».

uttavia, nello stesso capitolo i soldati ammanettano gli uomini, zittiscono le donne,
Turner sa bene che anche quando gli sforzi degli occupanti sono votati a conquistare «le menti e i cuori» degli iracheni, il contesto resta quello dell’occupazione e della violenza. Non a caso, in un’intervista ha dichiarato: «un bambino la cui porta ho preso a calci avrà da dirci di più sulla guerra di qualsiasi cosa possa dire io». Come si leggiamo nell’ultimo capitolo, «il sergente Turner è morto», ma il narratore-drone gli sopravvive e «continuerà a mantenere la distanza di sicurezza». La verità ultima della guerra continuerà a sfuggirgli, e la sua vita resterà «un paese straniero».