Realizzato in perfetto stile funzionalista, su disegno di Werner Düttmann, fra il 1966 e il 1967 (qualche anno dopo la Philarmonie di Scharoun), il Brücke-Museum nel Grünewald è un tardo frutto di quella nobile tradizione anni dieci-venti che anche in questa foresta residenziale, tristemente famosa per la stazione da cui partivano i treni per i campi, diede qualche prova di sé in ville di ricchi. Negli anni di agonia della Repubblica di Weimar Christopher Isherwood vedeva in queste ville «una bruttezza dispendiosa, espressa in tutti gli stili architettonici conosciuti, dall’eccentrica stravaganza rococò» alla, appunto, «scatola cubista di acciaio e vetro con il tetto piatto». Non si capisce perché uno scrittore modernista come Isherwood mettesse sullo stesso piano queste espressioni: rientravano per lui in uno stesso novero in quanto privilegio sociale a fronte delle code per il pane? «Il terrore dei furti e della rivoluzione ha ridotto questi infelici a vivere come sotto assedio».
Bianco museo nel Grünewald
Ma Grünewald era stato anche il quartiere delle ricerche quantistiche di Planck e dell’infanzia berlinese di Benjamin, ed è qui, in un bianco, solido edificio tutto in orizzontale, la cui tipologia razionale si fonde elegantemente alla verticalità discreta di pini e abeti infiltrati dal sole, che si può vedere al suo meglio l’espressionismo tedesco della Brücke, una collezione municipale basata sul legato 1964 di Karl Schmidt-Rotluff (ottanta opere, sue e dei suoi amici e sodali) e via via arricchita di acquisti fino a oggi. Secondo tradizione, anche quest’anno l’esposizione ordinaria è stata smantellata (se ne è vista una cernita in primavera al Palazzo Ducale di Genova) per ospitare una monografica-Brücke: si tratta di Emil Nolde, è aperta fino al 23 ottobre, riguarda il pittore (olî, e alcuni dei fin troppo celebrati acquarelli) e non l’incisore.
Come ha evidenziato la migliore letteratura sull’artista, il legame di Nolde con i ragazzi selvaggi della Brücke (Kirchner, Bleyl, Heckel, Schmidt il primo nucleo) risponde più che altro a una contingenza storica, segnata dalla necessità quasi vitale di fare gruppo contro le resistenze all’arte moderna non solo dell’Accademia tradizionale ma anche di quella cultura secessionista che pure aveva creato in Germania le premesse del corso nuovo – ricorderemo che Nolde, nel 1910, quando già era uscito dalla Brücke, si trovò al fianco di Kirchner e gli altri in una polemica furiosa con il secessionista ‘laureato’ Max Liebermann (il quale gli aveva respinto il quadro della Pentecoste), facendosi capofila della Neue Secession. Si trattava anche, naturalmente, di costruire tutti insieme un mercato di amatori che rompesse con i pregiudizi del collezionismo tradizionale (figura decisiva fu, in questo senso, il grande raccoglitore di grafica moderna, e amico di Munch, e autore del primo catalogo delle incisioni di Nolde, Gustav Schiefler).
Spirito solitario, autarchico, imbevuto di credenze nordiche, Nolde veniva da una famiglia contadina nella regione di confine fra Germania e Danimarca. Nato nel 1867, era più anziano degli altri esponenti della Brücke di almeno una generazione, così che si sentì forse compiaciuto dal ricevere, nel 1906, l’invito, da Dresda, ad aderire al gruppo: Schmidt-Rottluff, che quest’invito firmava, gli si rivolgeva come a un maestro per i suoi «uragani di colore». Che cosa erano, a questa altezza cronologica, gli uragani di colore di Nolde? Superata la fase tardo-impressionista (il viaggio a Parigi del 1899-1900 gli aveva «dato poco»: né Cézanne, né van Gogh, né Gauguin), adesso ha ben chiaro che la funzione del colore non può essere né ottica, né descrittiva: egli ha coltivato nella sua interiorità un mondo di sogni ancestrali, di favole originate dal folklore frisone dei suoi natali, dove la tradizione protestante si fonde inquietamente con le sopravvivenze del paganesimo barbaro, e il colore, che sin da bambino lo aveva affascinato in sé, nelle sue intrinseche qualità, diviene il veicolo privilegiato per dare a tutto questo una feroce evidenza figurativa.
Van Gogh il reagente
Il reagente è, in prima battuta, lo svirgolato «a grandine» di van Gogh, ma sulla strada così tracciata Nolde scoprirà, a seguire, che per dare la dovuta icasticità al suo modo di immaginare primitivo, quasi da ex-voto, conviene trovare una forma decisamente sintetica: gli è suggerita dalla lezione di Gauguin e, più modernamente, a gara con i pittori-Brücke, dai Fauves. Ma non bisogna intendere queste referenze come vincolanti, perché c’è in Nolde una singolarità di risoluzione abbastanza unica nel panorama stilisticamente miscidato delle prime avanguardie, persino più unica che quella dell’altro solipsista nordico Munch, di lui quasi coetaneo, il quale in fondo, pur con tutto il soggettivismo onirico, restava maggiormente agganciato al quadro parigino. Come «monolito» (l’espressione, a lui riferita, è di M. M. Moeller) Nolde trova il suo parallelo, semmai, in James Ensor, artista verso il quale, infatti, egli nutriva uno strano trasporto, non del tutto giustificabile in termini di ricerche formali o tecniche: dell’uomo di Ostenda lo attraeva probabilmente la personalità forastica, il voler restare fuori dal gioco delle simpatie e delle influenze, arroccato nella sua fantasia «a parte», ciò che, giusta la lettura di Francesco Arcangeli, gli è costato il declassamento all’interno del canone post-impressionista – Nolde volle conoscere di persona Ensor, lo andò a trovare nel 1911, nello stesso viaggio fece visita ai parenti di van Gogh.
Presentare Nolde solo in qualità di pittore proprio nel museo degli artisti della Brücke appare un po’ limititativo in considerazione del fatto che il dare-e-avere fra l’uno e gli altri passò soprattutto attraverso la grafica. Nolde iniziò gli espressionisti di Dresda alla tecnica dell’acquaforte; questi, viceversa, lo coinvolsero nella rinascita, da loro promossa, della xilografia, per la quale si appoggiavano alla tradizione profonda del Rinascimento tedesco. Egli ne fu entusiasta: l’incisione su legno, con il suo linguaggio sommamente riassuntivo, a blocco, e a contrasti estremi, lo metteva nelle condizioni di saltare direttamente, diremmo, nel suo mondo immaginario, coglierlo alla scaturigine, per restituirlo fresco, saldo, epico, scontroso, più di quanto non gli riuscisse con gli altri mezzi. Nato ebanista (era arrivato alla pittura molto tardi, a 31 anni; e può essere curioso sapere che scolpì quattro civette per uno scrittoio di Theodor Storm, il poeta nordico suo corregionario, e congenere per potenza visionaria), Nolde vedeva nell’anima del legno e, incidendo, si trovò perfettamente a suo agio nell’utilizzo espressivo dei nodi e della trama (cioè scarti di stampa), novità fondamentale apportata nell’arte xilografica da Kirchner e gli altri.
Con opere provenienti principalmente dalla Nolde Stiftung di Seebüll, casa (costruita in base a suoi schizzi) dove l’artista si era ritirato, stanco, alla metà degli anni trenta, insieme alla moglie Ada, la mostra di Berlino copre l’intero arco del suo operare: comincia con un quadro ancora, in fondo, böckliniano (un Böcklin a colori) come Prima del sorgere del sole, del 1901, e finisce con gli anni cinquanta (muore nel ’56). Dal 1941 il regime nazista gli aveva proibito di dipingere considerando la sua arte «degenerata» – anzi, insieme a Barlach, fu colui che subì di più la persecuzione in termini di opere distrutte –, e Nolde si era risolto all’uso esclusivo dell’acquarello (che lavorava su resti di carta giapponese) in quanto supporto più facilmente occultabile: si tratta di quelli che l’artista stesso ha definito «quadri non dipinti», un po’ troppo apprezzati dalla critica, certo condizionata dal loro peso morale. Questi acquarelli possono essere interpretati, in realtà, come una nemesi storica, essendo opera di un artista che aveva creduto, sebbene passivamente, in Hitler.
Difeso da Goebbels
La questione è spinosissima: si consideri che nei primi anni del nazismo la condanna di Nolde non fu recisa, egli fu difeso da Goebbels e da una certa gioventù hitleriana schieratasi con gli espressionisti (lo stesso Führer pretendeva Fritz Lang a capo dell’industria cinematografica tedesca). Non si può negare, in Nolde, un certo sentire «oltreumano» rapportabile al demonismo nazista, come ha visto Romano Guardini. La sua stessa arte sacra, rappresentata in mostra dalla Sepoltura del 1915, è troppo intrinsecamente germanica, troppo improntata al violento luteranesimo di certi antichi maestri tedeschi – i quali ritornano con la vividezza dei colori puri e disarmonici e un ribaltamento sul primo piano, tutto in orizzontale, egizio – da non suscitare sospetti. Il quadro fondamentalmente tragico di questa visione del mondo è sottolineato dalle marine: mari del nord deserti, mugghianti, nichilisti, dove il Sublime di Friedrich trova una nuova pregnanza materica non estranea alla lezione di Courbet (i celebri fiori e giardini di Nolde appaiono, in questa luce, una vacanza).
La passione etnografica
La stessa passione etnografica dell’artista, condivisa con il gruppo della Brücke, va letta in chiave di fuga dalla corruzione della civiltà, sull’esempio di Gauguin. Ma qui a fuggire è un uomo del Settentrione, patriottico, «contadino», il quale cerca idealmente un’alternativa alla crisi verticale che sta sprofondando l’Europa nella Prima guerra. Data 1913 il viaggio (in varie tappe) nella Nuova Guinea tedesca, da cui Nolde riporta un gruppo consistente di opere, molti acquarelli grandi e piccoli e diciannove tele, fra cui, in mostra, un ritratto di famiglia di indigeni che non si presenta, propriamente, come Weltkunst: l’esotico dei Mari del Sud appare proiezione terrorizzante, non ha nulla dell’inquieto abbandono romantico di Gauguin. Come Kirchner, come Heckel, Nolde è fortemente attratto dalla scultura e africana e oceanica; anche in lui il movente non è di tipo strutturale, picassiano, ma espressivo. Mentre negli altri, però, maschere e statuette votive vengono utilizzate nelle opere come corredo simbolico di una rivolta avanguardista contro la tradizione accademica, nel caso di Nolde il rapporto è meno mediato, più animistico e magico (in mostra, Figure esotiche e Figura lignea, entrambe del ’12).
Un’evidenza altrettanto significativa è l’amaro e controverso rapporto di Nolde con la civiltà urbana, rappresentata da Berlino: qui visse a più riprese, qui intrecciò rapporti cruciali, qui vide distrutto dalle bombe, nel febbraio 1944, l’appartamento della Bayernallee, dove si era trasferito nel ’27 dalla Tauentzienstrasse. Pochi, però, i dipinti dedicati al demi-monde berlinese: mentre, nella prima metà degli anni dieci, Kirchner virava, soggiogato dal vitalismo urbano, verso la maniera sfavillante e aguzza con cui si distinse dagli altri della Brüc ke, Nolde formulava una critica di questa nuova realtà in dipinti veloci e angosciosi di solitudini al caffè, come la coppia di Sloveni del 1911, anche caricata ambiguamente nelle fisionomie etniche, che indica, in mostra, tutto un filone antimoderno, e moderno, molto tedesco, dal quale uscirà fuori Aurora di Murnau ma anche una spaventosa ideologia comunitaria.