La recente pubblicazione del terzo volume della collana di Studi postcoloniali di cinema e media dal titolo Lagos Calling. Nollywood e la reinvenzione del cinema in Africa, a cura di Alessandro Jedlowski e Giovanna Santanera (Aracne Editrice, pp. 332, euro 27), riaccende in Italia un interessante dibattito su una delle industrie cinematografiche più produttive al mondo (dopo le meglio note Hollywood e Bollywood) e sulle trasformazioni sociali e culturali che hanno attraversato l’Africa negli ultimi anni, in felice accoppiata e reciproco completamento con Nollywood. L’industria video nigeriana e le sue diramazioni transnazionali, pubblicato quasi in contemporanea dallo stesso Jedlowski (Liguori editore, pp.160, euro 14,99).
Già dall’introduzione di quest’ultimo, l’autore cattura l’attenzione di un pubblico trasversale e non necessariamente addetto ai lavori raccontando di come uno dei suoi primi incontri con Nollywood sia avvenuto quasi per caso non in Nigeria e nemmeno in Africa, ma non lontano dalla stazione centrale di Napoli, dove su comuni bancarelle di un mercato rionale circolano dvd pirata di successi nigeriani, doppiati in francese, commercializzati in Italia da un ivoriano che lavora in una fabbrica di scarpe della pianura padana e venduti al dettaglio da un ambulante senegalese.
L’episodio è significativo e ben riassume un fenomeno esploso negli ultimi vent’anni con particolarità narrative ed estetiche precise, che rendono questi film particolarmente popolari in tutto il continente africano, immettendoli poi in itinerari apparentemente casuali e di certo asistematici nella loro diffusione globale, rivelando reti ampie, strutturate e, per certi versi invisibili, di circolazione alternativa.

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Il film “Anchor Baby”

Dopo aver ricostruito in maniera accurata, ma comprensibile anche ai profani, la genesi e lo sviluppo del fenomeno, il volume illustra come parte dei circa millecinquecento film prodotti ogni anno e distribuiti direttamente in formato home-video, circoli poi in quasi tutta l’Africa sub-sahariana, nei Caraibi, in Nord America, in Canada e nella maggior parte dei paesi europei, dando vita a nuove forme di pan-africanismo. La sua emergenza ha trasformato il panorama della produzione cinematografica creando nuovi spazi di espressione, nuove forme di imprenditoria e nuovi modelli culturali. Come spiega Jedlowski, è un’industria che ha saputo adattarsi a un contesto economico quanto mai disastrato, come quello della Nigeria degli anni novanta del Novecento e che, grazie all’introduzione di nuove tecnologie digitali, ha generato una vera e propria rivoluzione e una reinvenzione dall’interno, liberando la cinematografia africana da definizioni egemoniche imposte dall’esterno, per quanto questo sia possibile in un mondo globalizzato, o per quanto questo sia auspicabile, si potrebbe aggiungere.

In una fluida indagine, l’autore analizza i tratti chiave dell’evoluzione storica del fenomeno, i nodi teorici e gli approcci analitici dominanti, fino ad arrivare agli sviluppi più recenti e all’analisi dei contenuti, tenendo conto della mobilità transnazionale dei prodotti culturali che condiziona l’intergenericità e l’intertestualità che contraddistinguono queste produzioni.
Nell’insieme, i due volumi affrontano in maniera interdisciplinare ed esauriente una produzione culturale dal marcato orientamento commerciale (attualmente Nollywood costituisce l’1,2% del Pil della Nigeria), spesso aspramente criticata dagli intellettuali africani, se non addirittura condannata dai critici internazionali, per il suo scarso valore artistico. La maggior parte dei registi tuttavia attribuisce alle loro opere un ruolo sociale ed educativo, denunciando vizi per innescare riforme morali, condividendo con altre forme artistiche locali come il teatro itinerante yoruba o la scultura ibo il principio secondo cui un’opera è «bella» quando è «utile», e aprendo una finestra sull’immaginario africano contemporaneo (che in alcuni casi è ancora sessista e patriarcale, o tale appare).

Produzione popolare e moralista dunque, di bassa qualità tecnica e nettamente distinta dal cinema d’autore e dalle precedenti produzioni culturali militanti e anticoloniali alla Ousmane Sembène, ma non per questo meno efficace e influente. Reclamando o forse occupando suo malgrado un’autonoma posizione all’interno di quello che viene definito in maniera ancora ambigua e non univoca «cinema migrante», Nollywood riaccende il dibattito sui «transnazionalismi minoritari» o «dal basso», e sulla loro capacità di produrre contenuti culturali autonomi dai «centri», da cui pure più o meno direttamente discendono e cui più o meno manifestamente si oppongono e contrappongono. In reti molteplici e multicentriche di produzione e circolazione culturale e in un mondo sempre più «ex-centrico», Nollywood può essere intesa al tempo stesso come cultura minoritaria se riferita all’egemonia euro-americana, ma a sua volta dominante ed egemonica se rapportata alle altre istanze di produzione mediatica dell’Africa sub-sahariana.

L’indagine di Jedlowski e i saggi che compongono la raccolta Lagos Calling propongono una panoramica sul dibattito accademico che la nascita di Nollywood ha provocato a livello internazionale, offrendo diversi spunti teorici ed etnografici per ragionare sulla produzione cinematografica in un contesto postcoloniale.
Di cinema e culture africane e postcoloniali in genere si parlerà anche a Bologna in due giornate – oggi e venerdì 15 – nell’ambito del settimo Convegno Aiscli (Associazione Italiana di studi sulle culture e letterature di lingua inglese). Titolo dell’incontro, Postcolonial Passages into the 21st Century. Redrawing Lines of Engagement Across Literatures and Cultures in English.