Cosa c’è di nuovo è la prima domanda che si pone lo spettatore che ritorna ogni anno a Santarcangelo, anche a dispetto di qualche delusione. C’è un’aiuola, forse di ligustro, al posto dell’acqua, già da tempo sparita dalla fontana, spuntata un’estate di molti anni fa al centro della piazza del teatro in piazza: forse un’installazione ecologica o un intervento paesaggistico, come le seggioline d’abete un po’ da nido d’infanzia sparse dal designer francese Maël Veisse, su cui a qualche ora della sera si potevano vedere rannicchiati i pochi interessati a un dibattito (in lingua inglese) fra curatori di certi istituti di Praga o di Gerusalemme…
C’è in compenso una casa dell’acqua, sempre in piazza Ganganelli, una baracchina che a ogni ora offre acqua pubblica freschissima e frizzante, all’insegna dello spiritoso slogan: facciamo acqua da tutte le parti… E c’è un nuovo sindaco, la ventiseienne appena eletta Alice Parma, probabilmente la migliore performance che si è vista in paese negli ultimi anni: giusto un anno fa avevamo trovato il comune commissariato, dopo che qualcuno si era defilato dalla maggioranza impedendo l’approvazione del bilancio, e ci veniva da pensare al caro Romeo Donati, vecchio comunista di altre belle stagioni anche festivaliere.
Non sembra di scorgere niente di nuovo invece in questa quarantaquattresima edizione del festival, nulla cioè che appaia un salto o una mossa del cavallo rispetto alle edizioni precedenti, e naturalmente non si vuol dare a questa circostanza una connotazione di per sé negativa. Giunta al termine del mandato triennale, la direzione affidata a Silvia Bottiroli con la collaborazione di Rodolfo Sacchettini conferma tenacemente una propria visione di minoranza, diciamo così, delle arti performative. «Divenire tigre, divenire nuvola» dice la parola d’ordine scelta, e non è solo uno slogan, bisogna prenderla sul serio questa «creatura selvaggia che non rinuncia e non indietreggia».

26VISsinistraNella tempesta 2©Andrea Gallo

Ecco, non indietreggiare. Vuol dire il rifiuto di fare del festival una vetrina di spettacoli, ma anche qualcosa di più. Il rifiuto dello spettacolo in sé, con quel tanto o poco di tradizione che ancora si porta dietro. L’attore artista, il regista critico, il performer, il bricoleur che coltiva un proprio teatro d’occasione, niente di tutto quel che rappresenta l’eredità di un «nuovo» che non si è vissuto e non si conosce. Come una sorta di barriera o di trincea posta a difesa di una operatività che guarda semmai alla danza, o a certe frange della performance, e soprattutto si identifica nella figura del «curatore» mutuata dalle arti visive.
Si capisce così anche la presenza di parecchi «operatori» stranieri, protagonisti di un incontro pubblico a cui significativamente non era invitato nessun italiano, a corollario di due progetti europei (ma anche in questo caso impera la marginalità, cioè la scelta di operare ai margini piuttosto che con le istituzioni più riconosciute).
La dimensione internazionale è una delle linee d’azione del festival, insieme alla citata attenzione a certe esperienze di confine della danza, resa esplicita oltre che da presenze come Sonia Brunelli, MK/Michele Di Stefano o Cristina Rizzo, da una autoproclamatasi «piattaforma della danza balinese» che teneva nei pomeriggi imprevedibili sedute di lavoro molto parlate.
Poi c’è la dimensione dell’arte pubblica o ricondotta a uno spazio pubblico, la ridefinizione di «ambienti per formativi», che però, lo si notava l’anno scorso, rappresenta forse l’altra faccia del dissolversi di un’idea di comunità, come era intesa e centrale nel discorso teatrale fino a poco tempo fa, al cui posto si installa una folla solitaria. Non è un caso che sia sparito dall’orizzonte il tema del coinvolgimento del paese su cui ci si era accapigliati. Le strade di Santarcangelo sono piene, nel fine settimana, ma di una folla attirata dai tanti locali sorti a ogni angolo.
Spiluccando nel folto programma, la versione per attrice italiana (Sara Masotti) della conferenza-performance dell’artista belga Sarah Vanhee sul come vivere insieme agli altri, aneddoti personali, pensieri e parole… L’incontro in forma di camminata pubblica promosso dal paesaggista francese Gilles Clément o il ben più impegnativo safari itinerante del finlandese Esame Kirkoppelto (cinque ore la durata prevista!) che si ispira al comportamento collettivo delle renne. O ancora l’indefinibile e malinconico e altrettanto impegnativo The nature dello svedese Marten Spangberg che vuole definire lo spazio di un possibile «stare insieme» e «come se cisedesse su una spiaggia o su un prato»… Per tornare da ultimo negli spazi delle scuole comunali dove si completa il progetto installativo Art you lost? firmato da quattro diverse sigle artistiche romane, dove chi si inoltra nel percorso può ritrovare le tracce personali lasciate l’anno scorso.
E il teatro? Bisogna prendere quel c’è, naturalmente. Lasciando fra parentesi il po’ di clamore suscitato dalla lettura «di destra» che i cileni Re-sentida danno della vicenda tragica e per noi luminosa di Salvador Allende.
La presenza più corposa è quella di Motus, a partire da una mostra fotografica che rimette insieme i pezzi della sua storia più recente, l’incontro con la Tempesta shakespeariana e con Judith Malina. Il gruppo diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò ripresenta lo spettacolo molto bello che ne è nato e che a un anno di distanza appare ancora più compatto e coinvolgente in quel suo andare dentro e fuori il testo, dalla Tempesta post-coloniale di Aimé Césaire alle peripezie di un sans-papier albanese precipitato nel ruolo di Calibano. Nel nuovo Caliban cannibal è invece un giovane tunisino a confrontarsi con la figura di Shakespeare che più è fatta con la stoffa dei sogni, l’Ariel dal corpo androgino di Silvia Calderoni. Li osserviamo sui due schermi che inquadrano la tenda dove hanno trovato rifugio, dopo una fuga dall’isola di Prospero o dopo qualche esplosione rivoluzionaria. Ma che può anche evocare una condizione di nomadismo elettiva, mentre continuano a ricomporre pezzi di memoria.
WAR NOW! ideato e diretto da Teatro Sotteraneo insieme al lettone Valters Silis era forse la produzione più ambiziosa e attesa nel mettere insieme due sguardi lontani, se pure della medesima generazione, su un tema non banale qual è il centenario della Grande guerra. Parlare di delusione è quasi inevitabile di fronte a un esito che non riesce a dare senso concreto alla costruzione tripartita che regge lo spettacolo. Un prima, durante e dopo introdotti da immagini d’archivio che attraversano modi diversi di rappresentazione, dalla chiacchiera col pubblico a un esplodere violento di suoni e luci belliche, senza uscire dalla convenzionalità. Peccato. Ma ne riparleremo.