Si è svolto a New York, dal 27 febbraio al 1 Marzo, la prima edizione del New York City Porno Film Festival. L’annuncio era stato dato lo scorso novembre dall’organizzatore, Simon Leahy, che aveva presentato la rassegna come un’occasione collettiva di dare visibilità ai film per adulti intesi come una significativa e politica forma d’arte, «mirando a sfidare l’ipocrisia ed i luoghi comuni che circondano la pornografia per esaminare il suo impatto culturale e sociale». Lo sponsor della rassegna è stato Pornhub, sito web di condivisione libera di materiale pornografico, il luogo che l’ha ospitata, il Secret Project Robot, è uno spazio autogestito che ad un occhio europeo ricorda luoghi berlinesi come Tacheles. Nel Secret Project Robot si svolgono costantemente eventi musicali ed artistici e si trova nella parte più esterna di Bushwick, zona industriale di Brooklyn, famosa per essere diventata negli ultimi due anni l’epicentro dell’underground newyorchese in continua migrazione a causa dei costi eccessivi in cui precipitano i quartieri della città, diventando rapidamente da accessibili ad intoccabili. Ora il cuore della contro cultura newyorchese batte in questa zona che corrisponde, come in una polaroid, alla descrizione della sporca New York così come trasmessa da cinema e televisione e non poteva esserci uno spazio migliore per ospitare un festival dedicato alla pornografia, intesa come controcultura.
Ad andare in scena al festival non è stato il porno main stream, quello patinato dei film a luci rosse di produzione industriale, il programma della rassegna è molto più complesso, composto da protagonisti diversi, come l’icona transgender e produttore di film per adulti Buck Angel, o il cortometraggio Interior. Leather Bar diretto ed interpretato da James Franco e Travis Matthews, già selezionato al Sundance Film Festival e contenente diversi momenti di sesso più che esplicito.
L’idea e l’organizzazione del festival è di Simon Leahy, nome noto nel panorama artistico e creativo della scena newyorchese, conosciuto anche per essere il fulcro di un altro festival che si svolge sempre a Bushwick, il Bushwig fetival, tre giorni di cultura drag, amore e libera espressione, performance e dj set.
«L’idea di un porno film festival mi è venuta in quanto il sesso mi piace, – dice Simon Leahy – la sua rappresentazione mi piace, ma non quella artificiale, canalizzante bensì quella liberatoria, autenticamente trasgressiva che rappresenta, abbattendo le limitazioni di genere, contesto, prassi. Ciò che ho fatto è stato mettere insieme e coordinare un gruppo di persone che condividessero questa visione di porno come espressione anche politica di controcultura e si occupassero della selezione dei corti da mostrare, degli ospiti da invitare».
Il sesso, come qualsiasi altro elemento, è un atto politico, e questo concetto viene ripetuto in tutte le salse ed in tutti i modi sottolineandone il suo valore liberatorio e a sua potenzialità come elemento i rottura delle convenzioni. Incluse quelle visive e rappresentative.
La rassegna si è svolta tra proiezioni, dibattiti, conferenze che prevedevano un apporto attivo da parte del pubblico. Si è parlato molto della definizione di porno (post porno, indie porno) così come inteso da organizzatori ed avventori, per definire una rappresentazione del sesso che non sottostà, non solo ai canoni estetici del main stream, ma nemmeno a quelli culturali.
«L’idea che il sesso debba essere o etero o omo – dice Sandra, art director e frequentatrice del festival – che debba eccitare ripercorrendo percorsi patriarcali e fondamentalmente scevri da ogni tipo di ironia, è un’idea reazionaria. Il porno, come lo intendo io, celebra il pansessualismo, il poliamorismo, bisogna liberare l’immaginario erotico, per fare ciò il primo passo è abolire ogni definizione».
Questa idea è condivisa da molti, ed i dibattiti proseguono spesso al bar, dopo le proiezioni e gli incontri con gli autori.
Uno degli incontri più seguito ed acclamato è stato quello con l’artista e filmmaker Barbara Hammer, nata nel 1938, pioniera del porno lesbico e parte del movimento di rivoluzione sessuale degli anni ’60 sulla west coast californiana. Tra uno spezzone e l’altro dei suoi lavori, la Hammer ha presentato il suo pensiero e la sua filosofia di vita ed ha raccontato parte dell’esperienza personale e collettiva dell’essere lesbica in un’era pre-pride: «Certo che sessuale è politico! Io sono stata etero per nove anni poi tutta la mia vita è cambiata nel corso di una notte e nulla è stato più uguale, tutto era un segnale che mandavamo all’esterno. Eravamo ragazze lesbiche dichiarate e lo dichiaravamo anche tagliandoci i capelli o portando le unghia corte, in un’era in cui nessuna donna lo faceva e il perché portassimo le unghia corte era evidentemente correlato alle nostre scandalose pratiche sessuali – dice ridendo davanti al pubblico che l’applaude ogni due minuti – Così riprendevamo possesso dei nostri corpi, destini, sensazioni, sentimenti. Già essere lesbica aveva una valenza politica, rappresentare il lesbismo, poi, era l’apoteosi. La mia telecamera doveva viaggiare, muoversi, ondulare, seguire i movimenti, non essere ferma davanti ad un atto meccanico». Barbara Hammer sorride, parla dolcemente, è ironica ed autoironica e anche molto consapevole: «Viviamo in una società più aperta, non solo all’omosessualità, ma anche alle diverse forme espressive di amore e di sesso, quindi di vita, ma questo accade in una porzione di New York, in una porzione di San Francisco o di Los Angeles, non è un orizzonte più ampio di così».
I cortometraggi selezionati spaziano dalle anime giapponesi ai «passo uno» cari agli anni ’80 e ’90, alle sperimentazioni visive di ogni decade, un corto consiste in uno schermo rosa mentre l’audio sono gemiti e i sospiri, si va dal bsdm al queer al voyeurismo, sono rappresentate davvero tutte le espressioni possibili dell’eros. Un elemento è subito evidente: la presenza di corpi diversi, non omologati ad un unico stereotipo di forma replicata chirurgicamente all’infinito. Seni, pance, gambe, nasi, acconciature diverse tra loro rappresentanti immaginari erotici variegati.
«Sono felice che questo si noti – dice Julian Curico, proveniente da Berlino, uno dei curatori e selezionatori dei corti presenti alla rassegna – Ovviamente, non ponendo censure di nessun genere all’immaginario di nessuno, non ne pongo nemmeno a quello che si rivolge all’idea di corpo ricavato dalla chirurgia estetica, se questo è uno degli immaginari sessuali possibili, non se è l’unica espressione del porno. Io sono anche un videomaker, la definizione migliore che si può` dare del porno così come amo rappresentarlo, l’ha data Anaïs Nin, ne Il Delta Di Venere, scrivendo che ‘Solo il battito unito di sesso e cuore possono creare l’estasi’. Il porno non è solo un prodotto, ma un processo, un gruppo di persone che si uniscono e creano qualcosa, è un’esperienza condivisa. Ogni film esplora le potenzialità artistiche e politiche di queste collaborazioni e ci invita a ri-immaginare cos’`e il porno e che cosa può diventare».
Della rassegna se ne sono occupati i giornali americani e newyorchesi curiosi di sapere cosa stesse accadendo ed anche un gruppo di contestatori si è presentato sabato, munito di cartelli, davanti all’ingresso del Secret Robot Project. «C’erano una ventina di manifestanti sono arrivati qua davanti – racconta Simon Leahy – ci accusavano di essere veicoli di un pensiero patriarcale ed hanno contestato il festival. Che razza di giornata, ma dico io: ma avete letto il programma del festival? Non basta leggere solo la parola porno. Alla fine è dovuta venire la polizia a proteggerci».