Per tutto il giorno ieri si è parlato di un annuncio imminente da parte dei mediatori egiziani di un cessate il fuoco a lungo termine, addirittura un mese. La tregua temporanea accettata, pare, da tutti i palestinesi, Hamas incluso, però non è arrivata. E’ rimasta solo una voce mentre su Gaza anche ieri si sono scatenati i cacciabombardieri e i droni israeliani. Sono stati uccisi altri 8 palestinesi, alcuni dei quali miliziani dell“Esercito dell’Islam”: Ahmad al-Dali, i fratelli Bassem e Ahmad Hijazi, Raddad Tamboura , Muhammad Shubeir, Farhana al-Attar, Yasin al-Biltaji , Yahya Abu Daqin. In ospedale inoltre sono spirati due giovani rimasti feriti nei giorni scorsi: Hani Yasin e Nidal Badawi. Nomi ai quali si aggiunge quello di un ragazzo di Nablus, in Cisgiordania, ferito il 15 agosto dai soldati israeliani e deceduto ieri al Rafidia Hospital. Da parte loro Hamas e le altre formazioni palestinesi combattenti hanno lanciato almeno 120 razzi e colpi di mortaio verso il territorio meridionale di Israele , da dove altre 300 famiglie hanno chiesto assistenza al governo per trasferirsi in diverse parti del paese.

 

La paralisi è totale. Il governo Netanyahu non ha alcuna intenzione di rimuovere il blocco di Gaza, la prima delle richieste dei palestinesi che vivono nella Striscia. L’obiettivo è quello di costringere Hamas ad arrendersi, ossia ad accettare un cessate il fuoco definitivo in cambio di nulla. Da parte sua il presidente dell’Anp Abu Mazen ha fatto sapere che presenterà al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una richiesta per la definizione del calendario del ritiro di Israele dai Territori Occupati. Se il Consiglio di Sicurezza non accoglierà la richiesta Abu Mazen si rivolgerà alla Corte Penale Internazionale per mettere sotto accusa Israele . Almeno così minaccia.

 

Quando si parla di tregua occorre fare un salto all’indietro nel tempo, a martedì 19 agosto quando, poco prima delle 15, Israele annuncia il lancio da Gaza di tre razzi verso Bersheeva, nel Neghev, caduti in zone disabitate, in violazione delle intese per la cessazione delle ostilità. Benyamin Netanyahu ordina una rappresaglia dura e immediata. «Per l’undicesima volta Hamas ha violato la tregua e ha continuato a sparare razzi su Israele», si affretta a twittare l’ufficio del primo ministro israeliano. Da parte sua il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, afferma di non avere alcuna informazione su razzi sparati verso il Neghev. I bombardamenti aerei riprendono con particolare intensità e da Gaza partono decine di razzi. Poi in serata arriva prima la notizia che Israele ha colpito un edificio a Sheikh Radwan, uccidendo una donna e un paio di bambini. E successivamente che la donna e i bambini sono la moglie del comandante militare di Hamas, la “primula rossa” Mohammed Deif , e i figli. Quindi si è trattato di un attacco per uccidere Deif che forse si trovava nell’edificio. Del “capo di stato maggiore” del movimento islamico non si hanno notizie da quella sera ma un tweet ignorato dai media tenta di spiegarci qualcosa: «Non c’è l’accordo e le ostilità sono riprese. Chi è il colpevole? Hamas che vuole un accordo con risultati o Israele che ha messo in scena la violazione della tregua per giustificare l’assassinio di Mohammed Deif?». L’autore del tweet non è una persona qualsiasi. E’ Michael Ben Yair, un ex procuratore dello Stato di Israele, ex giudice della Corte Suprema e, per il lavoro svolto per tanti anni, conoscitore delle pieghe più nascoste delle attività dei servizi segreti. Ben Yair non è un mitomane ed inoltre anche Amir Oren, l’esperto militare di Haaretz, non aveva mancato in quelle stesse ore di sottolineare l’interesse israeliano a far collassare la tregua ed escluso una responsabilità di Hamas. Nessuno al momento è in grado di provarla ma resta in piedi l’ipotesi che, avendo appreso (forse grazie alla soffiata di un collaborazionista) della presenza di Mohammed Daif nella casa di Sheikh Radwan, Israele abbia fatto in modo da riprendere dei combattimenti, facendo comunque ricadere la colpa su Hamas, allo scopo uccidere prima il capo dell’ala armata di Hamas e, poche ore dopo a Rafah, altri tre comandanti militari del movimento islamico.

 

Non mancano voci israeliane che provano a dare un resoconto diverso della «guerra contro Hamas». I giornalisti di Haaretz, Gideon Levy e Amira Haas, tanto per citarne qualcuno. Ma restano poche in una società compatta nel chiedere l’uso del pugno di ferro contro i palestinesi di Gaza nonostante gli oltre 2.100 morti e i quasi 11mila feriti fatti sino ad oggi dall’Operazione Margine Protettivo. All’estero invece il dibattito all’interno delle comunità ebraiche è più articolato. Certo la maggioranza è schierata a completo sostegno dell’offensiva contro Gaza ma il dissenso è più ampio rispetto a quello che si registra in Israele. Spicca l’iniziativa di 327 sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti dell’Olocausto che hanno pubblicato una lettera a pagamento sul New York Times per condannare il «massacro di palestinesi a Gaza». «Il genocidio comincia sempre con il silenzio…Come ebrei sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti e vittime del genocidio nazista, inequivocabilmente condanniamo il massacro di palestinesi a Gaza e l’attuale occupazione e colonizzazione della “Palestina storica” », affermano i 327. L’iniziativa ha avuto origine da uno scritto pubblicato da molti giornali in cui il premio Nobel Elie Wiesel paragona Hamas ai nazisti e li accusa di sacrificio di bambini.