«Comprendo le buone intenzioni della commissione antimafia, ma non condivido l’iniziativa. Come tutte le forme di supplenza finirà solo per aumentare la confusione». Autorità del diritto penale, ex componente del Csm, candidato non eletto nelle liste del Pd alle europee dello scorso anno, il professore Giovanni Fiandaca è soprattutto un garantista militante.

Lei parla di supplenza, ma la presidente dell’antimafia Bindi ha spiegato che la «lista» rientra nei compiti della commissione.
È stata la commissione antimafia ad auto attribuirsi una competenza che è propria delle forze politiche. La definisco una «supplenza» perché la commissione ha sopperito al mancato o insoddisfacente controllo sulle candidature da parte dei partiti politici.

Perché allora non giudicare bene l’iniziativa?
Perché si è trattato solo di una fotografia, un monitoraggio di informazioni arrivate in parlamento da parte delle prefetture. L’appiattimento è evidente e pressoché meccanico: il giudizio etico-politico sull’affidabilità e onestà di un candidato viene delegato al codice penale.

La presunzione di innocenza fino a condanna definitiva prima di tutto?
Certo, ma non solo. Nella lista ci sono effettivamente soggetti che al momento sono solo rinviati a giudizio. Non voglio fare l’ipergarantista peloso, ma vorrei invitare a una cautela persino maggiore: questo “automatismo dell’impresentabilità”, per dire così, è rischioso per una democrazia liberale.

Non le sembrano strumentali gli attacchi insistenti alla presidente Bindi?
Quando si apre la porta ai sospetti, i sospetti avvelenano tutto. Obiettivamente i tempi dell’iniziativa dell’antimafia qualche dubbio lo sollevano. Si può contro-sospettare Bindi di voler consumare qualche vendetta nei confronti di Renzi. E così tutta l’operazione finisce nel discredito.

Il discredito è generale, non le pare per colpa soprattutto di certe candidature?
L’etica politica e il codice penale sono piani che andrebbero attentamente distinti. Viceversa ci si infila in un tunnel che porta dritti all’identificazione tra immoralità e illecito penale, esito tipico del legalismo etico. Una tendenza perversa che è caratteristica degli stati autoritari.

Anche un condannato può essere candidato a testa alta?
Ci sono reati che per i motivi per i quali sono stati commessi non necessariamente giustificano un giudizio di disapprovazione etico politica sulla persona dell’autore. Può darsi il caso di un amministratore pubblico che commette un abuso d’ufficio a fin di bene. Bisognerebbe capire perché l’ha fatto, in nome di quale interesse, per sopperire a quale problema. Non basta che una certa condotta sia inquadrabile nell’abuso d’ufficio per essere automaticamente un enorme misfatto dal punto di vista dell’etica politica.

Abuso d’ufficio è appunto il reato per il quale De Luca incapperà nella legge Severino.
Legge che andrebbe corretta, modificata. Ma mi rendo conto che le forze politiche non sono nella migliore condizione per trovare criteri univoci e condivisi. L’etica pubblica in questo momento è incerta e per le forze politiche affidarsi al parametro esterno della legge penale diventa comodo. Si cerca in qualche modo di standardizzare e rendere obiettivo il giudizio di disvalore, e in questo modo si finisce con il non tenere conto dello specifico politico. Un condannato per un gesto di disobbedienza civile può essere di per sé considerato indegno di impegnarsi politicamente, di candidarsi. Quando è vero il contrario.