Non è ancora lunedì, e cioè il giorno in cui alla riunione della direzione Pd Renzi si godrà la vittoria schiacciante alla conta fra chi sta con lui e chi no. Ma le minoranze sono già spaccate e si combattono a colpi di dichiarazioni. Da una parte i bersaniani intransigenti, con a capo lo stesso Pier Luigi Bersani che per una volta abbandona l’obbedienza «alla ditta» e si dichiara deciso a non votare l’Italicum se non verrà modificata la quota dei ’nominati’. Con lui anche Gianni Cuperlo e Rosy Bindi. C’è chi parla di una ventina, una trentina al massimo di deputati, «dipende dalla drammatizzazione politica».

Dall’altra il capogruppo di Montecitorio Roberto Speranza (creatura di Bersani, che lo aveva scelto come portavoce della corsa alle primarie 2012), il ministro Maurizio Martina, Cesare Damiano, e cioè i riformisti di rito dialogante (con Renzi), oggi vicini all’ex segretario Guglielmo Epifani. Che puntano ancora su un accordo. A loro parla la ministra Boschi quando, da Torino, accenna a uno spiraglio per qualche modifica dell’Italicum: «La legge elettorale non è perfetta ma è una buona legge. Si può sempre migliorare, ma senza perdere di vista l’obiettivo di darsi una nuova legge in tempi brevi».

Ma gli spazi per il «tavolo» proposto da Bersani, fra senatori e deputati per concordare un pacchetto minimo di modifiche alle riforme, non ci sono. La richiesta di Renzi di anticipare il voto sull’Italicum ne è la prova esibita.

«La legge elettorale non è materia di coscienza, è materia politica ed quindi necessaria un’intesa politica. Sono convinto che sapremo confrontarci come sempre abbiamo fatto e trovare una sintesi avanzata», dice Speranza. Anche i renziani non vogliono sentire parlare di «voto di coscienza». In realtà il regolamento del gruppo Pd al Senato prevede libertà di voto «su questioni che riguardano i principi fondamentali della Costituzione» (art.2 comma 5 del regolamento). Ma la legge elettorale non è materia di rango costituzionale, replicano dal Nazareno. E in ogni caso lo statuto del gruppo del Pd alla Camera di questa «libertà» non ha traccia. Questione chiusa?
No: una parte della minoranza invoca la legittimità del dissenso per l’effetto del combinato disposto Italicum-riforme sulla forma di governo. Spiega Fassina: «Sulla legge elettorale ci sono dei punti che, nel quadro della revisione del Senato vanno modificati, altrimenti scivoliamo in un presidenzialismo di fatto senza contrappesi, squilibrato, dove una minoranza anche molto limitata, grazie al premio di maggioranza attribuito alla lista, domina l’unica camera elettiva, elegge da sola il presidente della Repubblica, i membri della corte Costituzionale, arrivando ad un profondo squilibrio nei rapporti tra esecutivo e legislativo a mio avviso pericolo e da correggere». Il voto di coscienza su queste materie ha persino «un precedente esplicito nello statuto del primo gruppo dell’Ulivo del 2006», argomenta un altro bersaniano rimasto vicino all’ex segretario, Alfredo D’Attorre.

Al di là del litigio a colpi di statuto, il punto resta tutto politico: lunedì una parte della minoranza abbandonerà il salone del terzo piano del Nazareno per non riconoscere la legittimità del voto sul dispositivo finale. Un’altra parte voterà, entrando nella maggioranza renziana. Il busillis della vigilia è tutto sul «peso» delle due parti.

Stessa cosa accadrà poi in aula. Con l’aggravante del possibile voto a scrutinio segreto. Grazie al quale i dissidenti Pd sperano di convincere molti colleghi a dare «un segnale» al presidente del Consiglio. Nei fatti potrebbe avvenire il fenomeno opposto: lo scrutinio segreto può convincere i dissidenti di Forza Italia a votare a favore della riforma, nella speranza di dissuadere Renzi da qualsiasi tentazione di voto anticipato.

Il governo fa la faccia cattiva e lascia trapelare anche l’idea di un voto di fiducia finale, ai limiti dell’ammissibilità su una materia così delicata. Non lo esclude la ministra Madia: «Certamente l’obiettivo politico è andare veloci». La corregge la ministra Maria Elena Boschi: «Parlare di fiducia è prematuro». Più che prematuro, la fiducia potrebbe essere inutile. Renzi è convinto di stravincere in aula e vuole chiudere definitivamente la partita con la minoranza con una dimostrazione di forza definitiva. Stavolta senza offrire a nessuno l’alibi del voto di fiducia.