Banalmente, chiunque capisce che se i divieti della tradizione cultural-religiosa e le prepotenze dei maschi impediscono alla donna musulmana di uscire di casa se non supercoperta, la proibizione del velo o del burkini può rendere impossibile a ragazze, spose e nonne di svolgere una serie di attività private in luogo pubblico: di studio, di lavoro, di assistenza, di sport.

È impossibile, da fuori, valutare con sicurezza il rapporto fra scelta volontaria e imposizione subita. Come, del resto, nessuno può sapere se, come e quanto sia gradita alle dirette interessate la moda, notoriamente dettata o almeno condizionata dal business commerciale intorno al corpo femminile, che ha via via ridotto al minimo il grado di copertura della donna occidentale che scende in spiaggia, sfila sul tappeto rosso di un festival cinematografico o gareggia alle Olimpiadi.

Si può sostenere tuttavia con buoni motivi che la salvaguardia di un principio – in questo caso la libertà della donna di scegliere il proprio abbigliamento in casa e fuori senza subire imposizioni dall’alto – può ben avere dei costi. Nel dubbio, il diritto della donna, come di tutti gli individui, va comunque tutelato.

L’interdetto legale è a sua volta un atto d’imperio (di uno stato che non è prodigo di benevolenza per le donne musulmane) ma lo si accetta in quanto consentirebbe o persino aiuterebbe le donne a sfidare l’interdetto rituale. È questo un punto fermo per le varie forme di attivismo di parte femminile.

Certo senza volerlo, e forse senza rendersene conto appieno, questo tipo di difesa dei diritti della donna musulmana è il frutto di una lettura riduttiva e fuorviante dei rapporti di forza «reali». L’insistenza su aspetti del vivere comune che Edward Said avrebbe chiamato «orientalisti» rischia di occultare l’essenza stessa della disparità. I soprusi in nome di un precetto religioso, per quanto odiosi, non sono la vera causa della dipendenza.

Le mogli e le figlie musulmane non sono in grado di sottrarsi alla potestà degli uomini di casa perché si devono misurare con almeno tre ordini di «inferiorità» per superare i quali il ruolo dei propri padri, fratelli o mariti è essenziale. Non importa se sono cattivi (e per lo più sono cattivi o incattiviti dal contesto alienato e alienante in cui loro stessi si trovano a vivere) perché le donne sono costrette a contare sul loro aiuto e protezione.

Il genere ha permesso di ampliare la sfera dei diritti identificando una forma gerarchica che il femminismo ha avuto il merito di portare alla luce. Il genere, tuttavia, non esaurisce il campo delle diseguaglianze che caratterizzano la vita sociale, sul piano interno e mondiale. La donna musulmana non vive solo nel chiuso della famiglia e della comunità ma, soprattutto se inserita stabilmente in un paese occidentale dove l’islam è minoranza, è dentro un sistema diviso in un «alto» e un «basso».

Quand’anche la donna musulmana si sottraesse all’obbligo di coprirsi la testa e gran parte del corpo, eventualmente grazie alle leggi di Hollande e Merkel, o alle ordinanze di tanti comuni francesi e domani, magari, italiani, la donna musulmana, sciolta dalla legge coranica (ammesso che ne esista una e una sola) e dalla «signoria» dei parenti maschi, continuerà a vivere in una società che discrimina le donne.

È un divario che riguarda tutte le donne. Sono proprio le femministe a denunciare uno status che investe tanti aspetti della società, dalla discriminazione sul lavoro alla moltiplicazione degli stupri e degli atti di violenza sulla donna.

Se a fianco dell’«omicidio» (un termine che prescinde dal genere) esiste il «femminicidio», per discutibile e discussa che sia questa fattispecie, è perché la legge, e prima ancora il sentimento comune, avverte che la «femmina» è più vulnerabile e più minacciata. Sarebbe assurdo supporre che la donna musulmana non condivida la stessa discriminazione e gli stessi pericoli.

Nella stragrande maggioranza dei casi, la donna musulmana da noi appartiene alla condizione di «emigrata». Ovunque in Europa e nel mondo occidentale gli emigrati non godono degli stessi diritti degli indigeni. È anche per questo che i veli delle musulmane offendono più dei veli di una monaca o delle donne anziane di tanti paesi del nostro Meridione. Non è solo la componente maschile della famiglia a fingere di avere a cuore il «bene» delle donne musulmane, sentendo per ciò stesso il dovere di intervenire, ma addirittura lo stato.

Uno stato che per definizione è uno stato laico che stando per esempio alla legge in Francia, fin dai tempi della Terza Repubblica, avrebbe il divieto assoluto di entrare nelle – e di pronunciarsi sulle – questioni religiose.

In conclusione, la donna musulmana soffre di più per le limitazioni imposte in tanti suoi comportamenti dalle ingerenze degli usi e costumi del proprio ambiente o per l’iniquità di una società che nella sua globalità penalizza le donne?

Alla fine – o al principio – di tutto c’è lo squilibrio fra il Nord e il Sud del mondo. Con il burkini o con il bikini la donna musulmana sarà una piccola entità in un universo misconosciuto, discriminato e sfruttato. Può permettersi di uscire dalla sfera familiare che è dominata dagli uomini ma che le stesse donne sentono il bisogno di rinsaldare per autodifesa?

Il sistema in cui viviamo, se è «dopo» il colonialismo, non è «senza» il colonialismo. La politica di Europa e Stati Uniti in Libia e nel Medio Oriente sarebbe impensabile se non fosse per l’accettazione generalizzata da parte della politica e dell’opinione pubblica occidentale, con pochissime differenze fra destra e sinistra, di pratiche e presunte «responsabilità» che discendono sostanzialmente immutate dai falsi valori dell’epoca coloniale.

Forti della loro egemonia, gli stati occidentali avrebbero gli strumenti per avviare a soluzione – non si dice necessariamente per risolverli tante sono le difficoltà e le contraddizioni – i problemi del Sud, degli emigranti e delle donne musulmane. Non con una legge imposta dall’alto per punire qua e là un’usanza, ma con una politica che ormai non può essere che «revisionista», rinnegando l’unilateralismo a favore di una qualche forma di pluralismo.

La globalizzazione istituita con il colonialismo nel Novecento è stata raddoppiata e rafforzata con l’unificazione dei mercati, delle comunicazioni e del vivere comune che caratterizza il nuovo secolo. Più il capitalismo si universalizza, più le sue contraddizioni diventano universali. Benché in modo confuso e sulla base di richiami post-ideologici, i popoli del Sud sentono un grande bisogno di una seconda o terza decolonizzazione che è fallita una volta di più appena ieri.

Sfortunatamente, anche in questi cinque anni che ci separano dalle Primavere arabe l’Occidente ha giocato la sua partita ignorando e se del caso contrastando i diritti e le aspettative degli arabi, uomini e donne.