La nostalgia, dolore della lontananza e del ritorno, non confonde e sfuma i contorni dell’oggetto desiderato, li rende, al contrario, nitidi, stagliandolo come una miniatura sullo sfondo. Lo aveva compreso con straordinaria limpidezza Bachelard, quando scriveva: «La lontananza non disperde nulla, al contrario raduna in una miniatura un paese in cui piacerebbe vivere. Nella miniatura della lontananza, le cose disperse giungono a comporsi e si offrono allora al nostro possesso, negando la lontananza che le ha create».

L’ambiguità del desiderio si riassume in una dolorosa combutta tra appartenenza e distanza, tra possesso e imminenza della diversità. Questo è il tema che Sarantis Thanopulos isola con forza fin dalle prime pagine del suo ultimo libro, Il desiderio che ama il lutto (Quodlibet, pp. 96, euro 14,00) e che pedina con fedeltà fino alla fine.

Contrariamente a quanto emerge da un rapido sorvolo sulla storia della psicoanalisi, affezionata al topos della mancanza e del vuoto, Thanopulos concepisce il desiderio come una dimensione psichica fittamente popolata, abitata dai suoi oggetti. Esso si presenta non tanto come luogo instabile di una spinta sostenuta dalle nostre rappresentazioni e immaginazioni – come vuole Freud –, o come dinamismo ostinato del senso, messo in moto da una privazione originaria e guidato dai nostri fantasmi – secondo quanto scrive Lacan – piuttosto interpella, al pari del godimento, la corporeità e le sue pulsioni.
È proprio la pervasiva sensualità del desiderio ciò che lo rende aperto al mondo, disponibile al contatto con l’alterità. A parlarci del desiderio è il volto della persona amata; proprio quel volto lì, nella sua assoluta individualità e autonomia, sentito nella sua imminenza da quando abbiamo imparato a staccarlo da noi, pur continuando ad avvertirlo come il luogo ardente della nostra passione. Presentimento, imminenza, inquietudine dell’aspettativa, degustazione dell’attesa sono le anime del desiderio, conteso tra l’essere e l’avere, tra l’intimità e la distanza. Potremmo dire che l’ontologia del desiderio è l’ontologia del presentimento inaugurato dal lutto e dalla nostalgia.

Qual è la postura del desiderio? Come si dispone il corpo desiderante? Le pagine in cui Thanopulos tenta di rispondere a questa domanda sono tra le più penetranti del libro. Il gesto del desiderio è la disponibilità allo sbilanciamento e alla caduta. L’altro lo si incontra nella perdita dell’equilibrio, cui siamo spinti dal presentimento della sua presenza. L’uomo sperimenta così una condizione di vertigine che, per non risultare rovinosa, deve poter confidare sulla rêverie di una presa all’arrivo. Il bambino deve aver sentito, almeno una volta nella sua breve vita, cosa significa trovare braccia concave ad accoglierlo un attimo prima di toccare terra. Con il tesoro insostituibile di questa esperienza, saprà così accettare tutti gli sbilanciamenti a cui il desiderio lo muoverà.

Dal gesto spontaneo della richiesta di aiuto, un gesto ancora autoreferenziale, vita allo stato puro, il bambino passerà al gesto espressivo, capace di frequentare quasi tattilmente la consistenza autonoma dell’altro da sé. Così «il soggetto si inclina senza ritorno verso il fuori di sé, si sposta dal suo centro di gravità ed entra in una posizione eccentrica permanente. Sta scoprendo che il senso della sua esistenza ha una doppia serratura, e una delle chiavi è in mani diverse dalle sue. Il desiderio diventa movimento ineludibile, al tempo stesso intenzionale e subito, patito, della vita interna verso la vita esterna: la fondamentale estroversione del soggetto.

Al lettore avveduto che provasse a obiettare che anche per Lacan il desiderio è strutturalmente aperto all’Altro, nasce nella relazione con l’alterità, Thanopulos risponderebbe, convinto, che il diverso da sé non lo si incontra nella interazione simbolica e rappresentativa, bensì nella flagranza quasi tattile della corporeità. È il corpo che ha mille porte, non il pensiero.