Non è semplice discutere della concezione del passato in Cina, un paese nel quale l’idea stessa dello scorrere del tempo è radicalmente diversa da quella occidentale: al posto di una creazione, di un inizio e di uno svolgersi progressivo, in Cina vi è l’idea di un ritmo ciclico, circolare, dove «ciò che viene percepito come primario è il mutamento». La Cina è vista da noi occidentali come una civiltà raffinata oltre ogni dire ma soprattutto antica, millenaria, ed erroneamente considerata immobile e uguale a se stessa, un susseguirsi di dinastie e imperatori, scaltri mandarini e cortigiane spietate.

Da non storico, ma filologo e studioso della storia culturale, mi limiterò a condividere alcune suggestioni su questo argomento. Moltissimi altri, meglio di me, hanno scritto e scriveranno parole più profonde e definitive. La prima riflessione riguarda l’importanza del passato nella cultura cinese, la seconda prende in considerazione quanto le tracce materiali di questo passato così importante siano, per contro, poco evidenti. In riferimento al concetto di passato in Cina il primo pensiero va ad un frammento dei Dialoghi del buon vecchio Confucio: «Chi ravviva il passato e conosce il presente può davvero essere considerato un Maestro». Quindi, per comprendere il presente, non solo bisogna conoscere il passato, ma anche ravvivarlo, ripercorrerlo. Il verbo utilizzato in cinese nell’espressione «ravvivare il passato», wen gu, è wen 温, che letteralmente significa «riscaldare», riscaldare qualcosa che è diventato freddo, dargli nuova vita.

Un altro significato del termine wen è quello di «ripetere», «rivedere», nel senso di ripassare, studiare di nuovo qualcosa che si conosce già, pratica assai cara al pensiero confuciano. Questa lettura di Confucio è un punto di partenza obbligato per riflettere sul passato in Cina, poiché egli ha influenzato come nessun altro la cultura cinese. Per migliaia di anni è stato venerato come «saggio supremo» e la sua dottrina «ha permeato la cultura cinese fin quasi a identificarsi con essa ed ha costituito la base su cui l’impero cinese ha poggiato e s’è retto fino al nostro secolo».

Per Confucio il passato non soltanto è positivo, utopizzato in una mitica età dell’oro che spesso ricorre nel pensiero del filosofo, ma è soprattutto un passato imprescindibile, necessario per capire e vivere correttamente nel presente, addirittura per essere in grado di proclamarsi «maestro».

Secondo la tradizione, se prendiamo in esame ad esempio il canone Confuciano, solo un’opera, in realtà, rappresenta il pensiero di Confucio. La maggior parte sono testi più antichi che, presumibilmente, il filosofo e i suoi discepoli recuperarono, selezionarono, commentarono e diffusero. Confucio infatti non pretese di creare una nuova dottrina ma soltanto di «trasmettere la saggezza del passato, onde servirsene come regola del presente». «Non sono nato con la conoscenza innata, ma amo l’antico e mi impegno nell’investigarlo», affermava.

Questa visione del passato come strumento, elemento continuamente riproposto per capire il presente, ha influenzato in maniera decisiva la visione della storia in Cina. La storia, per noi occidentali, generalmente è o dovrebbe essere «l’esposizione ordinata di fatti e avvenimenti umani del passato, quali risultano da un’indagine critica volta ad accertare sia la verità di essi, sia le connessioni reciproche per cui è lecito riconoscere in essi un’unità di sviluppo». In Cina la storia è forse più definibile come una narrazione dei fatti del passato, memoria e cronaca degli avvenimenti, spesso utile a coloro che la compilavano in quello specifico momento.

La nascita della storiografia (scrittura della storia) è dovuta ai grandi storici dell’epoca Han (206 a.C.-220) che composero lo Shiji o Memorie di uno storico, di Sima Qian, e lo Han Shu, o Annali degli Han, ad opera di diversi membri della famiglia Ban. Questi due lavori, che rimangono i più pregevoli da un punto di vista letterario, furono presi a modello nelle epoche successive per la composizione di quello che diventerà un vero e proprio tratto distintivo della civiltà cinese: le storie dinastiche. Quando una nuova dinastia saliva al potere si occupava di scrivere la storia della dinastia precedente che veniva poi diffusa come cronaca ufficiale con l’imprimatur dell’imperatore.

La scrittura era quindi un potente strumento di legittimazione del potere. In questo modo sono state pubblicate venticinque storie dinastiche, un corpus immenso di narrazioni storiche che nessun’altra civiltà al mondo possiede. Un bagaglio storico e culturale enorme, che ha sempre occupato un posto di primo piano nella cultura cinese. Un bagaglio pesante, ingombrante che fu rimosso per un breve periodo in epoca moderna a causa degli sconvolgimenti politici e sociali della Repubblica Popolare Cinese. Oggi questo bagaglio culturale è ritornato prepotentemente alla ribalta in una sorta di riavvicinamento al passato che è avvenuto in Cina a partire dalla fine del secolo scorso e che vede oggi, ad esempio, gli Istituti Confucio in prima linea nella diffusione della lingua e della cultura cinese nel mondo.

La Cina è un paese nel quale il passato ha occupato per millenni una posizione centrale. E noi, da osservatori stranieri, esterni a questa civiltà, sempre abbiamo percezione della presenza di questo passato in tutte le sue manifestazioni culturali, dalla letteratura, penso a gran parte della poesia -la «danza in catene» di Wen Yiduo- per secoli perfettamente codificata e regolata da schemi tonali e semantici, o a numerose espressioni della pittura, anch’essa costituita da temi che appaiono ad uno sguardo non esperto simili nel tempo. Ma, secondo alcuni, per chi studia la Cina e la sua cultura antica avviene ad un certo punto un fenomeno spiazzante di straniamento, e cioè quel paradosso, quel momento in cui il sinologo, o anche il semplice viaggiatore colto, dopo aver letto e studiato sui libri, dopo aver sentito, toccato quasi, attraverso l’osservazione indiretta, questo imponente senso del passato che trasuda da tutto ciò che ha a che fare con la Cina, per la prima volta ha la possibilità di mettere piede nel Regno di Mezzo, e scopre che, almeno in apparenza, al posto dell’imponente passato che ci si attendeva finalmente di incontrare c’è… un apparente, spiazzante, metaforico vuoto.

Questo paradosso, vale a dire la pesante eredità culturale e spirituale del passato contrapposta ad una quasi apparente assenza di eredità materiale, è stato raccontato magistralmente dal sinologo Simon Leys, aka Pierre Ryckmans, (conosciuto dal pubblico italiano grazie al lavoro di Carlo Laurenti per i tipi di Irradiazioni, 2004), nel saggio «The Chinese attitude towards the Past», presentato inizialmente nel 1986 ad una conferenza e pubblicato nel 1991 a Parigi nel volume L’humeur l’honeur l’horreur da Édition Laffont. Leys sostiene l’esistenza di questo paradosso e racconta di una Cina dove la presenza del passato è continua e costante: innanzitutto nella sua lingua, rimasta immutata in alcune sue manifestazioni da più di duemila anni; nei giardini d’infanzia, dove i bambini recitano in coro poesie vecchie di dodici secoli; nella toponomastica che rimanda alla memoria di regni e dinastie antichissimi («permanenza dei nomi»), nella sua cucina e nelle sue pietanze che si ritrovano identiche ad oggi negli scavi archeologici di reperti di venti secoli addietro, e in tantissimi altri esempi che, come Leys afferma, potrebbero essere elencati all’infinito.

Per contro, questo passato risulta perlopiù inafferrabile poiché la Cina sembra, ad una prima osservazione, priva di un gran numero di monumenti antichi. «Il passato è fisicamente assente nel paesaggio cinese, al punto da sconcertare il viaggiatore occidentale colto, soprattutto se quest’ultimo affronta la Cina fondandosi sui criteri abitualmente adottati nei paesi europei». In Occidente, le vestigia del passato, argomenta Leys, «formano una catena ininterrotta che perpetua la memoria del passato nel cuore stesso delle città moderne. In Cina, invece, ad eccezione di un piccolissimo numero di celebri complessi (la cui antichità, del resto, è molto relativa), ciò che colpisce il visitatore è la monumentale assenza del passato».
Leys nel suo saggio, che tratta in maniera assai più articolata il problema – ad esempio il gusto per l’antichità che sempre ha caratterizzato il popolo cinese- e che qui purtroppo non è possibile riassumere per intero, cita Victor Segalen (1878-1919), celebre sinologo francese che stigmatizzò l’atteggiamento dei cinesi nei confronti del passato in un poema, Aux dix mille années (1912). Leys commenta il poema che, secondo lui, è una «meditazione sul modo in cui la Cina ha tentato di sconfiggere il tempo».

«I monumenti del mondo non cinese – dall’antico Egitto all’Occidente moderno- rappresentano il tentativo di sfidare i secoli in modo attivo e aggressivo: si tratta in questo caso di costruire per l’eternità, adottando materiali (…) che offrono la migliore resistenza al tempo. Ma, in tal modo, i costruttori riescono solo a differire la loro ineluttabile disfatta. I cinesi, in compenso, hanno capito che ‘nulla di immobile sfugge agli affamati denti dei secoli’. Così essi hanno preferito cedere al suo impatto in modo da poterlo meglio piegare e neutralizzare».

I cinesi scelsero quindi materiali deperibili, l’architettura cinese «possiede una sorta di ‘inbuilt obsolescence’». I cinesi, secondo Leys, concepirono «la teoria che poteva esistere una sola forma di immortalità, quella che conferisce la storia. In altri termini, la sopravvivenza [al tempo, n.d.a.] non va ricercata nel sovrannaturale né può fondarsi sui monumenti e le cose – l’uomo non può sopravvivere che nell’uomo, vale a dire, in pratica, nella memoria dei posteri, attraverso lo strumento della scrittura. (…). La perennità cinese non vive nelle pietre ma nelle persone». E nelle loro parole.