I due nuovi reattori della centrale nucleare di Hinkley Point, sulla costa occidentale dell’Inghilterra, si faranno. Lo ha deciso in maniera apparentemente definitiva l’esecutivo britannico guidato da Theresa May. Un dossier complesso quello dell’impianto nel Somerset. A spingere con forza per la sua realizzazione era stato l’ex premier David Cameron, ma la rivitalizzazione dell’atomo d’oltre Manica era già stato uno dei cavalli di battaglia di Tony Blair.

Hinkley Point si prospetta come una delle opere infrastrutturali europee più costose degli ultimi anni, visto che il conto finale dovrebbe ammontare a 18 miliardi di sterline (21 miliardi di euro). Circa un terzo dei fondi arriveranno dalla China General Nuclear Power Corporation, partner in questa impresa della francese Edf (84,4 delle quote in mano statale) che costruirà e gestirà la centrale e che già ha in capo il reattore esistente. Il coinvolgimento del governo cinese lascia più di una perplessità anche all’interno dello stesso governo della regina. I giornali britannici raccontano di almeno un alto esponente dell’esecutivo che avrebbe «seri dubbi» su questioni legate alla sicurezza. Non è un caso che si parli già di un security test «rafforzato» per gli investimenti stranieri nelle grandi infrastrutture. Insomma, per gli altri progetti di impianti nucleari come Sizewell e Bradwell (anche in questo caso si parla di nuovi reattori) ci saranno delle linee guida più stringenti, ma ciò non esclude che i cinesi possano giocare un ruolo di primo piano anche in quel caso.

Il ritardo dell’approvazione di Hinkley Point, arrivata dopo il G20 appena tenutosi in Cina, aveva indispettito non poco Pechino, la cui entrata nel progetto è ritenuta di importanza vitale. L’Edf ha debiti per oltre 37 miliardi di euro e senza un consistente sostegno esterno non sarebbe stata in grado di accollarsi la realizzazione dell’opera. Non che aiuti non fossero arrivati già dal governo Cameron, che nell’ottobre del 2013 aveva accordato all’Edf garanzie su prestiti fino a un massimo di 17 miliardi di sterline e aveva stabilito uno strike price a palese vantaggio dell’impresa. Per un periodo di 35 anni, a partire dal 2023 (quando si prevedeva la consegna di Hinkley Point C, ormai slittata almeno al 2025), ai transalpini si assicurerebbe un prezzo di vendita dell’energia di 92,5 sterline a megawatt per ora. Esattamente il doppio del costo attuale.

L’importo andrà chiaramente attualizzato in relazione al tasso di inflazione, ma ciò che rileva dell’intero meccanismo contrattuale è che se l’Edf non potrà distribuire l’elettricità a quel prezzo la differenza ce la metteranno gli utenti con una sovrattassa in bolletta. La logica che sottende questa apparente clausola capestro è che fra circa un decennio i combustibili fossili saranno talmente cari che il nucleare converrà, anche a quelle cifre apparentemente ora fuori mercato.

Queste clausole così singolari avevano fatto storcere il naso a parecchi e su vari fronti. In primis all’Unione europea, che non a caso a fine 2013 aveva voluto vederci chiaro, aprendo un’istruttoria per verificare se erano state violate le norme comunitarie sulla concorrenza.

In quei giorni la posizione dell’Ue, dai toni molto duri e netti, sembrava non concedere scampo a Hinkley Point. Nell’ottobre del 2014 è arrivato un po’ a sorpresa il via libera della Commissione Ue, non senza che nei mesi successivi Austria e Lussemburgo facessero ricorso alla Corte di Giustizia Europea. Ora la May, non proprio una grande sostenitrice del progetto quando ricopriva la carica di ministero degli interni, ha tenuto fermo il punto sullo strike price, scatenando le ire del governo-ombra laburista. Ma già in passato su questo aspetto anche diversi analisti della City si erano dichiarati a dir poco scettici.

Hinkley Point dovrebbe fornire energia elettrica al 7 per cento della popolazione. Considerando i precedenti poco lusinghieri con gli altri impianti nucleari di terza generazione della Edf, Flamanville in Normandia e Olkiluoto in Finlandia, l’incertezza sui tempi sembrerebbe permanere. Olkiluoto doveva essere completato nel 2009, ora si parla del 2018, mentre Flamanville è dietro di sei anni sulla tabella di marcia. In entrambi i casi i costi sono triplicati. Chissà cosa pensa al riguardo la China General Nuclear Power Corporation…

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