Si annaspa alla ricerca di nemici con cui combattere. Un disorientamento tragicomico regna nell’Occidente dall’epoca della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dopo l’invenzione di un avversario improbabile, Saddam Hussein, si è arrivati, come logica conseguenza dell’irragionevole scelta iniziale, alla battaglia contro uno spettro, l’Isis, la cui presenza, dice, a chi non soffre di allucinazioni, che il nemico non c’è più, è morto.
Orfani del nemico, rischiamo di perire di «fuoco amico».

Basterebbe pensare al successo elettorale di Marine Le Pen in Francia. Oppure a Donald Trump, candidato alla presidenza degli Stati Uniti, che ha ottenuto alte percentuali di consenso nei sondaggi, chiedendo lo sbarramento delle porte del suo paese ai musulmani (che in tanti già lo abitano).

Isis è l’estrinsecazione di una malattia molto pericolosa che, iniziata nelle viscere dell’Occidente, si diffonde in tutto il pianeta: la violenza erosiva di un sistema economico, che distrugge il senso stesso delle relazioni di scambio, rendendole catastroficamente ineguali, e spinge gli esseri umani nel destino di automi senza sentimenti, memoria e desiderio.

Fare del sintomo più appariscente il nemico esterno da distruggere, ignorando l’infezione grave interna che lo determina, è giocare con la morte a «mosca cieca» e i risultati cominciano a vedersi. Non c’è amicizia, mobilitazione solidale che tenga, in assenza di un nemico vero, riconosciuto e rispettato nella legittimità delle sue ragioni e del suo modo di essere. Se l’abbiamo smarrito e lo abbiamo trasformato in un mostro, di cui non sappiamo cosa fare, tranne che usarlo come spaventapasseri, l’errore imperdonabile è nostro e dobbiamo assumerne la responsabilità.

Il nemico non è l’avversario generico, con cui ci si trova a confliggere in modo casuale, a pestarsi i piedi brutalmente o a ammazzarsi per la precedenza a un incrocio. Il conflitto che scarica le tensioni, tra persone o collettività tra loro indifferenti che si odiano per pretesto (l’occasione che fa il ladro) e senza desiderio, è potenzialmente il più distruttivo e irreparabile. È nemico vero colui che desideriamo o potremmo desiderare, che nella libertà del proprio desiderio (la condizione necessaria perché sia vivo e desiderabile) ci può contraddire e perfino combattere a ragion veduta, cioè per il fatto che non è indifferente a noi ne vuole essere subalterno.

Il conflitto che il nemico vero ci offre è giusto e necessario: limita la nostra autoreferenzialità e ci fa conoscere il mondo e abitarlo. Chi non può essere nostro nemico, non ci sarà mai amico. Ci è amico chi ci può essere nemico, ci è nemico chi ci può essere amico.

Pare che Aristotele abbia detto verso la fine della sua vita: «O amici, non ci sono amici». Se all’omega iniziale della frase in greco si aggiunge un iota sottoscritto, la sua traduzione suona meno enigmatica: «Chi ha molti amici, non ha nessuno amico» (in sintonia con la nota affermazione del filosofo greco che non si possono avere tantissimi amici veri).

Nietzsche, optando per la prima versione ne ha cambiato la direzione: «Nemici, non ci sono nemici» ha esclamato.

A guardarli bene i due possibili significati della frase pronunciata (forse) da Aristotele, non appaiono così lontani tra di loro. Soprattutto se teniamo conto del cambiamento di direzione che ha impresso Nietzsche. Chi vuole circondarsi solo di amici, dimenticando l’importanza del nemico, si rivolge a un mondo deserto di affetti. «O amici, non ci sono più nemici» può ancora essere il grido d’allarme per una civiltà che vuole cancellare il conflitto.