Sicché non ci sono state le scuse: Obama, l’uomo dell’ambiguità, come ha annunciato ancora sul suolo degli States, non ha ritenuto di presentare le scuse della nazione nordamericana, al popolo del Giappone, colpito, nell’agosto 1945, dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki. Certo, non si può non riconoscere comunque il coraggio di Obama, nel recarsi (da presidente) nella prima città martire dell’atomica, e abbracciare un sopravvissuto, fisicamente, e idealmente, tutti gli altri, che, peraltro, recano ancora nel corpo e nell’anima, le tracce indelebili di quel 6 agosto, quando dal B29 Enola Gay fu sganciata, alle ore 8,45, la bomba «Little Boy». I duecentomila di Hiroshima, a cui si aggiunsero a tre giorni di distanza, i centomila di Nagasaki (ma le cifre sono incerte), i feriti, i contaminati, i bimbi malformati, o nati con malattie genetiche, i due centri annichiliti, e l’effetto terroristico di quelle bombe, attendono da tempo di esser risarciti.

Ma è il mondo ad attendere: quel doppio evento, a ben vedere, ha avuto un peso simbolico, e un impatto storico, che sono paragonabili alla Shoa. Sono i due grandi momenti, momenti perversi, della modernità: in entrambi, la scienza, in combutta con l’industria, si è prostituita completamente, scandalosamente, al potere, anche nel suo aspetto demoniaco, che non è soltanto quello coi baffetti di Adolf Hitler, ma anche quello rassicurante, da impiegato, di Harry Truman.

Ebbene, sta proprio qui, io credo, la «colpa» di Obama: più delle mancate scuse, l’imbarazzata (ma in fondo orgogliosa) rivendicazione della decisione di usare l’arma estrema, da parte del suo predecessore a Washington. Eppure, il fatto che Obama stesso, prima di partire, abbia parlato di giudizio affidato alla storia, in qualche modo pensando di esimersi dal giudizio politico, al di là delle intenzioni del presidente, avvalora l’esiziale significato di Hiroshima.

Ci sono nella storia, date epocali, e nomi che sono simboli, che risuonano alle nostre orecchie evocando significati, anche confusi, che hanno segnato il tempo. Hiroshima come Auschwitz sono i luoghi e i nomi in cui il moderno mostra il suo fallimento, sono le prove, tragiche, di come la modernità, nella sua forma estrema, dal forno crematorio alla bomba annichilatrice, abbia prodotto macerie, non soltanto fisiche, i cui effetti si riverberano sul nostro presente.

Se ne rese conto, dolorosamente, Claude Eatherly, che finì ricoverato in manicomio, e poté poi in qualche modo dare sfogo alla propria frustrazione nel bellissimo carteggio con il filosofo tedesco Günther Anders. Chissà se Obama lo ha letto, ma penso di no, altrimenti avrebbe forse saputo trovare parole più alte e significative di quelle affidate ad un balbettio sul suolo martoriato di Hiroshima.

E anche la frase nobile che invita a cambiare il modo di pensare rispetto alla guerra, e in particolare alla guerra totale, quella che si è manifestata nell’arma estrema della bomba atomica, quella frase suona a dir poco bizzarra sulle labbra di un uomo che, non differenziandosi, su questo piano, dai suoi predecessori, se non in una nutrita serie di buone intenzioni, è stato un presidente di guerra. A dispetto di quel grottesco Nobel per la pace, che improvvidamente gli fu assegnato agli esordi del suo primo mandato.

Se dobbiamo prendere sul serio l’invito di Obama, allora chiudiamo la mai cessata corsa agli armamenti, ivi compresi quelli non più «semplicemente» atomici, ma termonucleari, con il loro malefico corredo di altre armi di distruzione di massa, che, guarda caso, giacciono, soprattutto, negli arsenali degli Usa e della Nato, Italia compresa. Se dobbiamo «pensare una storia diversa», come ci invita a fare il primo presidente afroamericano, allora bisogna innanzi tutto che gli Usa smettano il ruolo di gendarme del mondo.