«Rintracciare milioni di persone, arrestarle e deportarle non è un obbiettivo realistico e non rispecchia chi siamo come americani. Da oggi se rientrate nei nostri criteri potete uscire dall’ombra e vivere liberi». Così Barack Obama, ex senatore dell’Illinois, e dichiarato ammiratore di Abraham Lincoln, ha emancipato gli immigrati clandestini d’America. Il suo discorso alla nazione, trasmesso giovedì sera a reti unificate radio/tv e online, verrà ricordato come uno dei momenti chiave della sua presidenza che, per quanto ampiamente anticipato, ha provocato il previsto terremoto politico a Washington.

I numeri

Nel discorso pronunciato giovedì alla Casa bianca, ribadito ancora ieri in una apposita tappa in Nevada, Obama ha premesso che l’America è un paese di immigrati. «Per 200 anni l’immigrazione ci ha mantenuto una nazione giovane, dinamica e imprenditoriale» ha detto, aggiungendo, «il sistema però ora è incrinato», ricordando che attualmente risiedono negli Usa oltre 11 milioni di immigrati non in regola. Di questi, metà vivono in questo paese da oltre 10 anni e un terzo sono proprietari della propria casa. I loro figli possono eventualmente laurearsi ma non lavorare legalmente, nessuno di loro può viaggiare all’estero sperare di rientrare a casa.

Per i prossimi due anni il decreto annunciato da Obama sospende le procedure di espulsione nei confronti di chi è entrato nel paese prima di avere 16 anni e di coloro che sono genitori di cittadini americani. In America dove vige lo ius soli quest’ultima categoria comprende ben 4 milioni di persone. In tutto circa 5 milioni di persone potranno richiedere l’amnistia a patto di essere incensurati e pagare retroattivamente le tasse.

I precedenti

In passato decreti simili sono stati promulgati da altri presidenti, compresi Reagan e George W. Bush, ma la portata dell’azione di Obama è senza precedenti per ampiezza, come inedita è stata anche l’asprezza dei toni con cui l’annuncio è stato accolto. Come preannunciato i repubblicani hanno accusato Obama di abuso di ufficio e proclività imperiali per la decisione unilaterale presa, per di più all’indomani di una cocente sconfitta nelle elezioni vinte dai conservatori.

Da canto suo Obama non ha mancato di redarguire ripetutamente l’opposizione che da anni blocca ogni tentativo di riforma nel Congresso: «Ai repubblicani che confutano la mia autorità in materia dico: approvate una legge e non vi sarà più bisogno di decreti». Obama, che non ha promulgato una riforma sull’immigrazione all’inizio del suo primo mandato quando i democratici erano in maggioranza in camera e senato, ha in seguito cercato di negoziarne una con i repubblicani. All’inizio del 2013 era sembrato che un accordo potesse essere possibile con un compromesso bipartisan negoziato al senato fra democratici e repubblicani moderati. Ma alla camera i falchi nella maggioranza repubblicana hanno fatto muro. «Per un anno e mezzo hanno impedito che il dibattito fosse messo all’ordine del giorno» ha ricordato Obama che nella speranza di trovare un accordo aveva mandato migliaia di nuovi agenti alla frontiera meridionale e moltiplicato le deportazioni.

Opposizione all’attacco

Non è bastato a placare i repubblicani, soprattutto quando la scorsa estate sulla frontiera si sono riversate nuove ondate, stavolta di minorenni non accompagnati, provocando una crisi umanitaria nei centri d’accoglienza e una crisi di nervi nella leadership repubblicana. Il copione ormai noto in molti paesi ha prodotto episodi come quello di Murrieta, cittadina dell’hinterland californiano, dove la popolazione ha presidiato per giorni il centro di accoglienza designato nelle vicinanze, assaltando a sassate i torpedoni che trasportavano donne e bambini profughi. In questo e altri casi i leader della protesta hanno assecondato gli istinti più truci della base gridando all’invasione e addossando la colpa all’eccessivo permissivismo di Obama. Dal campo opposto sul presidente montava la pressione della lobby ispanica che nel 2012 aveva contribuito non poco alla sua rielezione senza ottenere le riforme promesse.

Con l’avvicinarsi delle elezioni midterm le possibilità di accordo si sono ulteriormente ristrette dato che anche i democratici sono stati ben contenti di allontanare un argomento scomodo dalle campagne elettorali. Il risultato delle elezioni ha infine estinto anche gli ultimi barlumi di speranza dato che molti repubblicani considerano che il trionfo elettorale avvalli la linea dura in materia di immigrazione. La decisione di Obama è dunque maturata nel momento in cui su questo argomento il presidente «uscente» non ha più niente – o comunque molto meno – da perdere. In parte si tratta di un tentativo di forzare la mano al Congresso quando ancora rimangono alcune settimane prima che si insedi la maggioranza «bicamerale» repubblicana. Quello che evidentemente miravano a impedire le minacce repubblicane che nei giorni scorsi avevano definito il progetto «esecutivo» di Obama un «avvelenamento del pozzo» e «un drappo rosso agitato davanti ad un toro».

Verso le presidenziali

Dietro alle frasi d’effetto si celano le manovre di avvicinamento alle presidenziali del 2016, con in palio l’elettorato ispanico, quello destinato a crescere più di ogni altro nel prossimo decennio. Un argomento subito articolato da Michelle Bachman già candidata presidenziale del Tea Party del Minnesota, che con consueta delicatezza ha parlato di «orde analfabete» importate dai democratici per rimpinzare i seggi elettorali. È la dinamica politico-demografica del «Grey vs. Brown» destinata a contrapporre sempre più spesso il giovane e crescente elettorato «latino» a una popolazione bianca sempre più anziana ed esigua.

Se non vorranno essere tagliati fuori dalla «deriva demografica» i repubblicani sanno bene che saranno obbligati prima o poi ad affrontare l’argomento al di là delle esternazioni populiste. Inoltre uno dei vantaggi concreti dell’economia americana rispetto alle stagnanti Europa e Giappone è chiaramente la capacità di assimilazione dell’immigrazione per supplire all’invecchiamento della popolazione pensionata. Alcuni settori in particolare ne sono del tutto dipendenti – l’agricoltura e all’altro estremo, l’alta tecnologia come dimostra l’enorme forza lavoro specializzata (prevalentemente asiatica) importata da Silicon Valley. Due industrie chiave dello stato più popoloso, la California, e della sua vantata «ottava economia mondiale» che si regge su una forza lavoro in maggioranza ispanica di cui oltre due milioni vive nella clandestinità.

Intanto però i repubblicani si trovano a dover decidere quale risposta immediata dare allo «schiaffo» di Obama. Oltre al tentativo, improbabile, di impeachment o eventualmente la querela in corte federale, un ipotesi ripetutamente ventilata riguarda un nuovo shutdown ovvero il rifiuto di approvare il bilancio che porterebbe alla paralisi delle funzioni federali prima della fine dell’anno. Una tattica già impiegata l’anno scorso che aveva però prodotto un crollo dei gradimenti Gop nei sondaggi. In alternativa potrebbero bloccare selettivamente finanziamenti a programmi sociali e ostruire nuove nomine. La prima a farne le spese potrebbe verosimilmente essere Loretta Lynch, la candidata liberal designata da Obama a succedere al ministro della giustizia dimissionario Eric Holder, il voto favorevole in parlamento sul suo conto appare improvvisamente assai meno probabile.

La battaglia è appena cominciata. Per ora è acquisito che Obama per una volta ha preferito la guerra aperta al muro contro muro. Di sicuro ha iniettato un’inedita verve nella stasi politica che aveva paralizzato Washington.