«Quando c’è un’inchiesta non dobbiamo operare su illazioni, informazioni incomplete, fughe di notizie». È Barack Obama a incaricarsi di stroncare il direttore del Fbi e la sua scelta di riaprire l’inchiesta Mailgate a pochi giorni dalle elezioni. Senza mai menzionare James Comey, la Casa Bianca lo critica ferocemente: «Sto cercando di fare uno sforzo per non intromettermi – ha detto Obama – ma quando questa vicenda è stata investigata l’ultima volta, la conclusione del Fbi è stata che Hillary ha commesso alcuni errori ma niente di perseguibile».

Accantonare l’inchiesta Trump-Russia, riaprire quella sulle email di Hillary, rendere pubblici senza alcun motivo apparente 130 pagine di documenti interni sul perdono presidenziale concesso da Clinton al lestofante economico Marc Rich la bellezza di 15 anni fa… James Comey è entrato nella campagna, la lotta nel fango è salita a un altro livello, The Donald realizza l’impresa impossibile di guadagnare terreno. E costringe la sfidante ad andare a caccia di ogni singolo voto.

Ieri, mentre Trump ha passato la giornata in Florida, Hillary Clinton ha operato sul fronte occidentale con un comizio nel campus universitario di Phoenix. La puntata in Arizona, che al Senato manda John McCaine e che ha votato repubblicano in 15 delle ultime 16 elezioni, è indicativa della fluidità di queste volatili presidenziali. L’unica volta dal dopoguerra che l’Arizona ha scelto un presidente democratico è stato nel 1992 per il secondo mandato di Bill Clinton; il fatto che sua moglie creda di poter ripetere quel risultato la dice lunga sull’evoluzione demografica del sudovest.

Gli 11 Grandi elettori dell’Arizona dipendono dai voti di una maggioranza bianca a cui si è andata però affiancando un minoranza ispanica in forte crescita: la forza lavoro di un’economia di servizio incentrata su una popolazione con un alta percentuale di pensionati. Se Hillary riuscirà a mobilitare i nuovi elettori in numero sufficiente, potrebbe controbilanciare il peso dei conservatori bianchi. Questi ultimi sono ancora il 70% circa ma non tutti i repubblicani moderati – soprattutto le donne – sono necessariamente pronti a votare per il populista che si è impadronito del partito.

Un equilibrio labile che si ripropone anche nel vicino Nevada con le nuove minoranze progressiste nelle grandi città contrapposte alla vecchia guardia di bianchi arroccata nelle campagne. Nella coalizione giovani, bianchi istruiti, donne e minoranze su cui è stata costruita la presenza Obama, sono queste ultime in maggiore crescita e da loro dipendono in gran parte le future speranze del partito democratico, specie per contrastare la recrudescenza nazional-populista del trumpismo.

Hillary ha una base naturale nell’elettorato femminile mentre soffre, rispetto ad Obama, di un «deficit d’entusiasmo» fra i giovani (e molti ex-sandersiani). Nella conta degli electoral votes per lei diventa inoltre cruciale controbilanciare probabili perdite nel Midwest (potenzialmente anche in stati di tradizione democratica come Wisconsin, Michigan, Ohio), ecco quindi l’importanza degli ispanici del Southwest. Nei distretti chiave dell’Ovest, per lei hanno già fatto campagna Bernie Sanders e Michelle Obama, domani toccherà al suo vice Tim Kaine, un ex missionario gesuita in Honduras, che terrà un comizio interamente in spagnolo.

A Los Angeles parlo con Toni Mendoza, incaricato della campagna social media della Unite Here!, il sindacato di alberghieri che come molte union rappresenta ormai una forza lavoro quasi interamente composta da immigrati. «Si parte stasera per il Nevada», mi dice. Domani e dopo facciamo get out the vote a Las Vegas. Poi venerdì ci spostiamo in Arizona». I sindacati sono il tradizionale motore operativo della base democratica e il loro ruolo diventa cruciale nel mobilitare gli elettori, se necessario portandoli fisicamente ai seggi. «In Arizona volontari liceali sono andati porta a porta. Molti sono ragazzi ispanici ma ci sono anche figli di immigrati più recenti, somali ed etiopi, che lavorano in gran numero nei ristoranti e esercizi dell’aeroporto di Phoenix. Ragazzi ormai americani in tutto e per tutto, ma che magari indossano il velo islamico della loro tradizione».

È un’immagine ideale per gli strateghi di Clinton e dai dati preliminari del voto anticipato (in molti stati si vota già da un paio di settimane per posta o in appositi seggi) sembra dare i suoi frutti, soprattutto in città fortemente sindacalizzate come Las Vegas. Il Nevada assegna solo sei grandi elettori ma nel labirintico calcolo nazionale sono proprio gli stati minori che potrebbero risultare determinanti.

Intanto sul fronte orientale la battaglia riguarda i voti afroamericani e gli sforzi per «sopprimerlo». Ieri il Naacp ha sporto denuncia contro la commissione elettorale del North Carolina che ha purgato dalle liste di voto 5.000 nomi, in gran parte afroamericani. E sempre ieri è stata bruciata una chiesa nera a Greenville, Mississippi. Sul muro annerito della Hopewell Missionary Baptist Church è stata lasciata una firma emblematica: «Vota Trump».