Il discorso del presidente uscente Barack Obama da Chicago sarà ricordato come il farewell address, il discorso dell’addio, del congedo dalla Casa Bianca.

Col finale ad alta emotività, il fazzoletto che asciuga una lacrima, e l’omaggio alla moglie Michelle, «my best friend». E delle tante speculazioni su un futuro politico dell’ex-first lady.

Oppure come il discorso di un nuovo inizio, l’annuncio di un impegno politico attivo, inedito per un ex-presidente.

Sarà comunque ricordato come uno dei migliori discorsi – diverse migliaia, tanti quelli declamati in otto anni – del più talentuoso e brillante oratore che sia mai stato inquilino nello studio ovale.

Ma il senso più vero e più profondo dei cinquanta minuti di fronte alla platea del McCormick Place di Chicago è altrove. È nell’allarme che li percorre tutti, quei cinquanta minuti.

È nell’affermazione, quasi iniziale, che «la nostra democrazia è minacciata ogni volta che la diamo per scontata». Sì, minacciata in America, non in uno dei paesi verso cui l’America si erge a moralizzatrice e che castiga perché, secondo il suo metro, la minacciano e la violano, la democrazia. Non un avvertimento pessimista, ma realista.

Un discorso sulla democrazia, dunque. Conquista fragile e sempre a rischio di essere perduta.

Un ragionamento che va preso in due modi.

Il primo, evidente, è nella rivendicazione di una presidenza, la sua, che ha avuto come obiettivo prioritario, appunto, la costruzione di una democrazia «reale», non solo quella della propaganda. Sul fronte delle relazioni razziali. Dell’immigrazione. Dei diritti per le minoranze. Della parità. Dell’accesso alla sanità per tutti.

Sono i punti che dovrebbero dar corpo a quello che anche Obama definisce l’eccezionalismo americano, un paese eccezionale perché nasce e si sviluppa grazie all’immigrazione e alla mescolanza demografica. Tutte peculiarità che però vanno costantemente motivate e sostenute.

E non contrastate, creando le condizioni di un paese in conflitto tra le sue parti, e in particolare sul terreno delle relazioni razziali.

«La nostra Costituzione – scandisce Obama – è un regalo meraviglioso. Ma in realtà è solo una pergamena. Non ha potere di per sé. Siamo noi, il popolo, che le diamo potere con la nostra partecipazione e le nostre scelte. Col nostro difendere o no le nostre libertà. Col nostro rispettare e far rispettare o no lo stato di diritto. L’America non è fragile. Ma i grandi progressi che abbiamo fatto nel nostro viaggio verso la libertà non sono scontati».

C’è orgoglio ma anche la consapevolezza che proprio nella «struttura» del paese c’è molto che ancora va fatto ed è lì che cova un sentimento di rabbia che può fare deragliare la democrazia.

«La nostra economia non funziona né cresce abbastanza quando pochi prosperano alle spese della nostra crescente classe media. E le grandi disuguaglianze corrodono anche i nostri principi democratici. Mentre l’uno per cento ammassava una ricchezza sempre più grande, troppe famiglie nelle città e nelle campagne sono state lasciate indietro – gli operai licenziati, la cameriera o l’infermiere che non riescono a pagare le bollette – e oggi pensano che il sistema funzioni contro di loro, che il governo sia al servizio dei potenti. La ricetta per aumentare il cinismo e la polarizzazione politica».

L’altro punto, dopo la rivendicazione dei propri meriti – «Yes, we did» – e dopo l’ammissione delle inadeguatezze, e anche delle ingenuità della sua azione di governo, è l’appello alla difesa del percorso democratico che la nuova amministrazione sembra voler ostruire.

Donald Trump non è nominato, se non una volta, ma è evidente la preoccupazione che la nuova amministrazione, diversamente dal passato, non prende il posto di quella precedente affermando il proprio programma, ma nasce con l’intento precipuo, dichiarato, di annullare e rovesciare l’agenda del presidente uscente, comprese appunto conquiste che dovrebbero essere considerate irreversibili sul terreno dei diritti (ma anche sul terreno di relazioni internazionali con paesi che non è più ammissibile demonizzare e punire, come è stato fatto prima di Obama).

Conquiste da difendere. Ecco perché il presidente esce di scena, ma per restarci. Per essere un punto di riferimento e di leadership morale, anche se non immediatamente – per ora – politica: «Cari americani, servirvi è stato il più grande onore della mia vita. Non ho intenzione di fermarmi: sarò accanto a voi, da cittadino, per tutti i giorni che mi rimangono. Per adesso, che siate giovani o giovani nel cuore, ho solo un’ultima richiesta per voi. La stessa cosa di otto anni fa, quando vi chiesi di fidarvi di me. Vi chiedo di crederci. Non nella mia abilità di cambiare le cose, ma nella vostra».

C’è in queste parole il mantra dello «yes, we can» che ripete nel delirio della platea.

È il noi che conta, non l’io, è una scossa a reagire. L’America obamiana che non starà alla finestra mentre i repubblicani agitano il piccone.

Ma quello «yes, we can» significa qualcosa oggi se non è la nostalgia di uno slogan riuscito, ma se torna a risuonare come otto anni fa, come la connessione speciale tra un’America «altra» rispetto alla maggioranza silenziosa e un leader «altro» rispetto a una classe politica, anche democratica, distante dal popolo.

Quella connessione non ha più funzionato, una volta che Obama è stato eletto, ed è stato un limite che si è tradotto in un errore strategico, per Obama stesso e per il Partito democratico.

Il discorso di Chicago suggerisce che tra il presidente che torna cittadino e i suoi sostenitori può di nuovo stabilirsi quel «we» abbandonato e tradito.

Oggi sembra essere l’unica speranza concreta di ripresa di una politica in grado di contrastare l’amministrazione Trump e costruire una prospettiva democratica.