Qualcuno forse ha riferito a Benyamin Netanyahu delle congratulazioni che gli ha fatto il senatore italiano Maurizio Gasparri che ha salutato la sua vittoria elettorale come una umiliazione per Barack Obama «il peggior presidente della recente storia americana». Obama, ha notato l’arguto Gasparri, che sino a qualche giorno fa non aveva mai fatto sfoggio di una conoscenza tanto approfondita della politica internazionale, «ha interferito nella vita interna di Israele ed è stato respinto». In verità dubitiamo che Netanyahu abbia cognizione dell’esistenza di Gasparri. Sa invece che il «peggior presidente» si prepara a regolare qualche conto in sospeso con lui. Anche perchè non ha ancora digerito il discorso che Netanyahu ha pronunciato il 3 marzo a Washington di fronte al Congresso per ostacolare l’accordo che gli Stati Uniti stanno negoziando sul programma nucleare iraniano. Naturalmente non sono in vista passi che potrebbero mettere in forse l’alleanza strategica tra i due Paesi. E nessuno dimentica che, nonostante le umiliazioni che Netanyahu gli ha inflitto in questi anni, Obama ha comunque protetto gli interessi di Israele ovunque, anche al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite silurando, solo per fare un esempio recente, la richiesta di riconoscimento dello Stato di Palestina.

 

La Casa Bianca due giorni fa ha fatto sapere che «valuterà la strada da seguire per portare avanti il processo di pace in Medio Oriente, ma si va avanti con la soluzione dei due Stati», in risposta alle dichiarazioni del primo ministro israeliano che alla vigilia del voto è stato chiaro: finchè ci sarà lui non nascerà alcuno Stato palestinese e ogni mezzo sarà lecito per bloccare il programma nucleare dell’Iran (anche la guerra). Netanyahu ieri ha corretto in parte, in un’intervista a Msnbc, le sue promesse elettorali affermando «di non volere una soluzione con uno Stato…voglio una soluzione con due Stati pacifica e sostenibile, ma per questo le circostanze devono cambiare». Parole che non devono aver fatto piacere ai partiti dell’ultradestra che ritengono di essersi sacrificati in nome della vittoria elettorale di Netanyahu cedendo consensi e seggi al Likud e che ora vedono il primo ministro farsi più vago sulla questione dello Stato palestinese.

 

Arutz 7, l’agenzia di informazione dei coloni israeliani, parla di «punizione» che attende il primo ministro, in riferimento a quanto scritto dal New York Times, che cita una fonte anonima della Casa Bianca, su una presunta intenzione dell’Amministrazione Obama di dare il suo appoggio a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per i “Due Stati”, basata sui confini del 1967, quelli precedenti l’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. «Le premesse della nostra posizione a livello internazionale – ha detto la fonte spiegando l’opposizione a fine 2014 alla risoluzione sullo Stato di Palestina all’Onu – è stata quella di sostenere negoziati diretti tra israeliani e palestinesi». «Ora invece – ha aggiunto – siamo in una realtà in cui il governo israeliano non è più a favore di negoziati diretti». Interessanti sono anche i commenti giunti dalla portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki. «Le recenti dichiarazioni del premier (israeliano) mettono in dubbio il suo impegno per una soluzione a Due Stati… ma questo non significa che abbiamo preso la decisione di cambiare la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite». Per alcuni è sufficiente solo il riferimento al veto Usa sulla Palestina al Consiglio di Sicurezza per indicare che a Washington si stanno valutando tutte le opzioni, nessuna esclusa, per rispondere al rifiuto di Netanyahu della soluzione dei Due Stati.

 

Tra gli analisti israeliani si tende, per ora, a ridimensionare l’importanza dei passi che potrebbe muovere la Casa Bianca in risposta alla posizioni espresse da Netanyahu in campagna elettorale. «La tensione tra Netanyahu ed Obama esiste da anni ed è salita ancora di più da quando il primo ministro ha parlato al Congresso. Tuttavia mi riesce difficile immaginare che gli Stati Uniti arrivino a modificare totalmente le loro posizioni sul conflitto israelo-palestinese al punto da sostenere una proclamazione unilaterale dello Stato di Palestina», ci ha detto ieri Oded Eran, analista dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale di Tel Aviv. Ciò non toglie, ha aggiunto Eran, che si faranno persino più difficili le relazioni tra Obama e Netanyahu negli ultimi due anni di mandato del presidente americano. Di recente, peraltro, è stato nominato coordinatore della politica della Casa Bianca in Medio Oriente, Nord Africa e la regione del Golfo, proprio Robert Malley, un esperto statunitense di Vicino Oriente preso di mira qualche anno fa da Israele per i suoi contatti con Hamas e per le sue critiche alla politica di Tel Aviv.

 

Gli Usa con ogni probabilità faranno conoscere meglio le loro reali intenzioni dopo la formazione del governo al quale sta lavorando il premier che tra qualche giorno riceverà l’incarico dal capo dello stato Rivlin. Nel frattempo lo scrutinio degli ultimi 200 mila voti rimasti in sospeso, quelli di soldati, diplomatici e di altri israeliani che risiedono all’estero, ha reso ancora più netta la vittoria del Likud di Netanyahu, che è salito da 29 a 30 seggi e danneggiato la Lista Araba Unita passata da 14 a 13 seggi (resta comunque il terzo gruppo alla Knesset), La lista Campo Sionista, avversaria principale del Likud, è ferma a 24 seggi mentre a sinistra ottiene un deputato in più il Meretz, passato da 4 a 5 seggi.