Mentre la leadership cinese è impegnata nella riunione del Plenum del comitato centrale del partito comunista, dagli Stati uniti arriva una provocazione epocale, che costituirà un momento determinante nelle relazioni tra i due paesi nell’immediato futuro, facendo sfumare eventuali posizioni comuni, già difficili in precedenza, per quanto riguarda l’area del Pacifico.

Ieri una nave da guerra americana, la Uss Lassen, è «entrata illegalmente» – per i cinesi – nella zona marittima dell’arcipelago delle Spratly, «senza aver avuto il permesso del governo cinese». Si tratta di una manovra rischiosa che mira a legittimare quella zona di mare come «internazionale» e pertanto alla portata di qualunque imbarcazione, qualunque sia la sua nazionalità. Tutto questo significa riportare a galla un argomento spinoso, perché quell’area marittima è considerata propria da Pechino che la contende con quasi tutti i paesi della regione (Vietnam, Filippine, ma anche Brunei, Taiwan e Malesia).

L’ultima volta che la marina militare americana si è avvicinata entro le 12 miglia del territorio rivendicato dalla Cina era il 2012, ma si tratta di un evento che potrebbe ripetersi, dato che Washington ha intenzione di spostare nel Pacifico il 60 per cento della propria flotta marina da guerra. La strategia americana al riguardo è infatti chiara: l’argine alla Cina viene posto tanto da un punto di vista commerciale (come dimostra la chiusura dei negoziati sul Tpp, un accordo commerciale con molti paesi asiatici, escludente proprio Pechino, giunto al termine seppure al ribasso, proprio perché strategico per gli Usa), quanto da un punto di vista militare con una presenza americana che serve a dare manforte ai propri alleati principale nell’area, in particolare il Vietnam per quello che concerne le zone contese con la Cina e il Giappone per quanto riguardo un approccio alla regione in generale. Pechino, naturalmente, benché impegnata in uno dei momenti più importanti per il funzionamento dei propri meccanismi interni di potere, si è irritata, richiamando l’ambasciatore americano nella capitale ed esprimendo un nervosismo che per ora si è limitato alle parole. Il portavoce del ministero degli esteri cinesi ha specificato che il passaggio della nave a meno di 12 miglia nautiche dalle isole costituisce una «minaccia alla sovranità della Cina».

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Secondo l’amministrazione americana l’iniziativa aveva invece lo scopo di difendere la «libertà» di navigazione, minacciata dalle aggressive rivendicazioni della Cina, nonché dalla costruzione, testimoniata da immagini satellitari, di vere e proprie isole artificiali in quella zona da parte di Pechino. Fonti statunitensi hanno affermato che altri passaggi di questo tipo si potrebbero verificare nei prossimi giorni e nelle prossime settimane.

Tutto questo non favorisce il dialogo con la Cina, anzi. Anche perché al solito gli strateghi di Washington non hanno certo scelto un giorno qualunque per la «sfilata». Oltre al Plenum, infatti, pesa probabilmente il recente viaggio di Xi Jinping, che è stato accolto con tutti gli onori in Gran Bretagna. È evidente che Washington non ha gradito questa nuova centralità cinese e tende a farlo notare con i mezzi che più sono congeniali. La strategia che Obama lascia in eredità alla futura amministrazione vede infatti un progressivo disimpegno da altre zone del mondo, per concentrarsi dove si giocheranno le sorti per la supremazia nel prossimo decennio, ovvero l’Asia, una commistione di luoghi da sfruttare e mercati da invadere, nonché potenze rivali da placare.

Alla mossa Usa e alla reazioni cinesi, non sono mancate le posizione di altri paesi dell’area.

L’Australia ha fatto sapere di sostenere il diritto internazionale di navigare nel mar cinese meridionale. Per il ministro della difesa, Marise Payne, «è importante riconoscere che tutti gli stati hanno il diritto in base alla legge internazionale alla libertà di navigazione e di sorvolo». Payne ha poi ricordato che il suo Paese «continua a collaborare strettamente con gli Usa e altri partner regionali in materia di sicurezza marittima». Positivo nei confronti di Washington, ovviamente, anche il presidente filippino, Benigno Aquino, secondo il quale il passaggio del cacciatorpediniere americano nelle acque contese aiuterebbe a ripristinare un equilibrio di potere nella regione. «Penso che chiunque sarebbe favorevole ad un equilibrio di potere ovunque nel mondo», ha detto Aquino. «L’equilibrio di potere – ha aggiunto – dice che non c’è una sola voce da rispettare». Il rischio naturalmente è il solito: che il traffico in queste zone finisca per creare l’incidente fatale.