Era il 24 luglio 2008 quando una folla in delirio di berlinesi accoglieva un giovane senatore dell’Illinois che apparentemente prometteva di mettere fine alle guerre di George W. Bush. L’Europa si innamorò precocemente di quel giovane uomo politico, assai prima e più intensamente di quanto non accadesse agli Stati uniti, dove Barack Obama fu eletto nel novembre 2008 con un non travolgente 53% dei suffragi. Otto anni dopo la sua presidenza si avvia alla fine con molte, troppe, promesse non mantenute e niente rende palpabile il suo fallimento quanto la guerra civile strisciante tra una polizia razzista e il popolo afroamericano.

Sì, perché di guerra civile si tratta quando le perdite tra i civili disarmati si contano a centinaia e quando qualcuno tra le potenziali vittime, come il soldato Micah Johnson, decide di usare ciò che ha imparato nell’esercito per ripagare i poliziotti con la loro stessa moneta, facendo cinque morti e sette feriti a Dallas. Nemmeno due settimane fa, la Casa Bianca ha annunciato che 116 civili «potrebbero» essere stati uccisi negli attacchi di droni nel mondo tra il 2009 e il 2015.

Le organizzazioni per i diritti umani stimano il totale a una cifra molto superiore, circa 2.000 vittime civili della guerra al terrorismo.

Eppure queste cifre di azioni militari su teatri di guerra che vanno dallo Yemen al Pakistan impallidiscono di fronte al numero di cittadini americani, quasi sempre disarmati, che ogni anno vengono uccisi dalla polizia: nel solo 2015, il quotidiano The Guardian ha calcolato 1.134 morti. Un migliaio l’anno significa circa 8.000 vittime nei due mandati di Obama, il doppio dei terroristi che il Pentagono sostiene di aver eliminato nello stesso periodo e 2,5 volte il numero di americani morti negli attacchi dell’11 settembre.

Ieri Obama è andato a Dallas e ha offerto parole di riconciliazione e di conforto, esattamente come aveva fatto un mese fa dopo le stragi di Orlando, in Florida, o l’anno scorso dopo gli attacchi di San Bernardino, in California, o ancora nel 2012 dopo il massacro in una scuola elementare di Newtown, in Connecticut. Parole che ormai suonano retoriche e vuote, di fronte all’incapacità della sua amministrazione di mettere un freno alle violenze della polizia o agli attacchi di terroristi o semplici squilibrati. Il Congresso dominato dai repubblicani, ovviamente i maggiori responsabili della situazione attuale, non è riuscito a votare nemmeno il bando alle vendite di armi da fuoco a persone sospettate di terrorismo.

È bene ricordare che Obama è stato un presidente abile, carismatico e ben intenzionato: vengono i brividi al solo pensare cosa avrebbero potuto essere otto anni con due personaggi come John McCain e la macchietta Sarah Palin alla Casa bianca. Proprio le qualità di Obama ci permettono tuttavia di misurare l’ampiezza delle forze storiche che hanno portato al fallimento della sua presidenza.

È fuori di dubbio, per esempio, che le tendenze alla paralisi del sistema politico, insite nella Costituzione, si siano enormemente rafforzate. La Costituzione del 1787 era concepita per una gestione prudente e assennata da parte di politici più fedeli al bene comune che alle ambizioni personali o agli obiettivi di partito. Il degrado del personale politico e la polarizzazione di democratici e repubblicani hanno invece provocato il gridlock, la paralisi del sistema.

E il non-decidere, sul lungo periodo ha costi estremamente elevati. L’altro fattore in gioco in questi anni è stata quella che molti decenni fa Gunnar Myrdal aveva individuato come la «maledizione» degli Stati uniti: la questione razziale. L’elezione di Obama era stata percepita come la prova definitiva del suo superamento ma si trattava di una percezione errata: il movimento Tea Party e la mobilitazione degli elettori anziani e agiati che hanno restituito Camera e Senato ai repubblicani erano una risposta proprio al suo successo.

Oggi gli afroamericani continuano a essere discriminati, maltrattati e talvolta uccisi anche perché poveri e i poveri, si sa, sono esclusi dal gioco politico americano. Non stupisce, quindi, che Obama non sia riuscito a migliorare di un pollice la loro condizione, avendo scelto di essere un presidente centrista e rispettabile, sempre timoroso di essere accusato di parzialità a favore della comunità da cui proveniva.

Sono passati 52 anni da quando Malcolm X pronunciò uno storico discorso a Cleveland, in Ohio, il cui titolo con cui è rimasto nella storia: «The Ballott or the Bullett», la scheda elettorale o le pallottole. In realtà, il discorso era assai più conciliante di quanto non appaia dal titolo, era prima di tutto un appello a votare. Gli afroamericani oggi alle urne ci vanno, e votano per i candidati democratici, ma 50 anni di esercizio della democrazia non sono stati sufficienti per migliorare sostanzialmente la loro condizione.