A lungo annunciata, il 17 ottobre 2016 è partita l’operazione per la liberazione di Mosul. La seconda città irachena per importanza, hub commerciale del paese, comunità a maggioranza sunnita ma cara a sciiti, cristiani e kurdi, è occupata dallo Stato islamico dal giugno 2014.
Alla battaglia prendono parte 100mila uomini, per lo più truppe governative e unità di controterrorismo a cui si aggiungono peshmerga, miliziani sciiti, compagini tribali sunnite e cristiane assire. Contro hanno una forza militare limitata, 6-8mila islamisti arroccati in una città blindata da campi minati, cecchini, trincee. Ma soprattutto da oltre un milione di civili, quelli rimasti dopo la fuga di massa di due anni e mezzo fa.
La controffensiva è partita da Qayyarah, comunità sede di una strategica base militare a sud di Mosul: liberata a settembre è diventata trampolino verso il capoluogo di Ninawa per polizia e esercito iracheni ma anche per le forze Usa.
A quasi due mesi dal lancio delle operazioni, Mosul è circondata: a nord premono le forze kurde di Erbil, a est e ovest l’esercito iracheno, mentre le milizie sciite legate all’Iran si sono portate a ovest, a Tal Afar, chiudendo il cerchio. Al momento il composito fronte ha ripreso oltre 20 quartieri, oltre a decine di villaggi del distretto, e si trova a est dell’Eufrate in attesa di varcarlo per dirigersi verso il centro della città.
Ma un fronte composito porta con sé anche obiettivi diversi e spesso divergenti. A partire dai convitati non proprio di pietra: alla battaglia prendono parte Stati uniti, Turchia e Iran. I primi con i raid aerei, i secondi con truppe nella base di Bashiqa (che infiammano le tensioni con il governo iracheno), i terzi tramite le milizie sciite che guidano. E se Teheran condivide con Baghdad la necessità di unità del paese, Washington e Ankara puntano a una divisione etnica che lo renda più controllabile.
Settarismi esterni che fanno da specchio a quelli interni che si traducono nelle prevedibili violenze contro i civili sunniti perpetrate da milizie sciite, peshmerga e – è l’accusa di organizzazioni internazionali – anche da unità dell’esercito.
L’autore di queste foto
Dopo aver frequentato la scuola di giornalismo di Torino Emanuele Satolli si specializza in fotogiornalismo e realizza un servizio per la rivista Time sulle tossicodipendenze in Russia. Il progetto, Krokodil Tears, inserito dal settimanale Usa tra le migliori pubblicazioni del 2013, è stato esposto al Lumix Festival di Hannover e al Festival della Fotografia Etica di Lodi. Satolli si è occupato anche dei problemi legati all’immigrazione in Centro America con il lavoro In the Bag for North pubblicato su varie riviste internazionali. Attualmente vive e lavora a Istanbul. In Turchia si è occupato tra l’altro della situazione dei rifugiati siriani.